giovedì 25 aprile 2019

Capitolo Ventidue


Brian Pov.


Non avevo voglia di ripercorrere quel viale in quel momento. Era meglio concentrarsi sulle cose facili, quelle divertenti. Ce ne sono state molte negli anni che siamo stati insieme, io e Jack. Chissà perché, però, la mia mente e il mio stomaco avevano la necessità di buttare fuori tutto quanto. Il cuore no, lui se ne stava lì, spezzettato e riaggiustato come capitava a tenersi su da solo, senza più la forza di vedere e rivedere le stesse scene.
Mia sorella era prima di tutto la mia migliore amica, lo è sempre stata, lo sarà sempre, nonostante gli anni che siamo stati separati e nonostante potessimo passare le giornate a prenderci in giro o a litigare. Il rapporto che ho con lei, nessuno potrà lacerarlo o distruggerlo, forse io ci sono andato vicino, ma per fortuna siamo riusciti a recuperarlo.
«Abbiamo litigato per giorni e giorni, siamo arrivati a non parlarci neanche più. Poi è successo quello che temevamo. Dovevo partire e avevo tempo solo una settimana per prepararmi. Avevo chiamato la mamma, poi avevo tentato di avvisarti, volevo parlarti, ma tu non hai voluto ed ho fatto appena in tempo a darti la notizia. Ero già deluso, amareggiato, incazzato quando sono tornato a casa quella sera. Jack non aveva avuto una buona giornata e si lamentava del mal di testa, non ce l’ho fatta a dirglielo subito. Volevo disperatamente fare pace con quell’uomo, dirgli quanto lo amavo e stringerlo fino a fonderci insieme, ma lui non ne voleva sapere. Pensava di avere altro tempo, io sapevo che non ne potevamo sprecare altro. Così provai a dirglielo la mattina dopo.»

«Sei già sveglio?» Mi chiese quando mi vide in cucina a preparare il caffè. «Devi andare alla base?»
«No.» Scossi la testa. «Ti devo parlare Jack.»
Sapevo che non era il modo migliore per iniziare una discussione, ma non sapevo come affrontare tutta quella faccenda davvero.
«Di cosa?» Si appoggiò al piano della cucina e restò a guardarmi. In casa non c’era nessun rumore, solo noi due in cucina con i nostri respiri.
«Ieri ci hanno comunicato che la mia squadra deve partire. Fra cinque giorni.»
Lo vidi spalancare la bocca e diventare pallido, cercò di mascherare la sua espressione passandosi le mani tra i capelli e strofinandosi il volto, ma gli occhi lucidi riuscii a vederli ugualmente.
«Quindi… è arrivato il momento.» Disse.
«Sì.»
«Quanto starai via?» Mi chiese a fatica.
«Dai sei ai nove mesi.»
«Merda… è tantissimo.» Mormorò. Lo vedevo combattuto tra il restare fermo lì a parlare con me e correre in camera a fare i bagagli e andare il più lontano possibile.
«Dovrò andare alla base solo due giorni prima di partire, ci hanno dato questi tre giorni per stare con le nostre famiglie.» Gli dissi e per quanto avessi voglia di partire, andare a trovare mia madre e mia sorella, sapevo che loro non mi volevano e che avrei fatto un viaggio a vuoto. Volevo stare con Jack, vivere gli ultimi giorni con lui, perché ero certo che una volta partito, sarebbe finita la nostra storia.
Si schiarì la voce e puntò lo sguardo verso il salotto.
«Ok. Beh io… Ora devo andare al lavoro. Ci vediamo stasera, quando torno.» I suoi passi erano più veloci di ogni altra mattina. Mi accasciai sulla sedia e seppi che quella era la fine.
Non potevo stare lì, non volevo stare con lui quei tre giorni a litigare peggio di tutte le altre volte. Avrei voluto passare tre giorni meravigliosi con lui, fare tutto quello che non avevamo fatto prima, stare comodamente a letto e amarci come se non ne avessimo mai abbastanza. E invece lui doveva andare al lavoro.
Aspettai che venisse a salutarmi prima di andarsene, come ogni mattina, ma non lo fece. Uscì dall’appartamento come se io neanche ci fossi. Invece ero lì, seduto su quella cazzo di sedia a chiedermi perché.
Lasciai il caffè nella brocca, raccolsi le mie cose in giro e preparai le mie valigie.

«Non ti ha nemmeno salutato? E tu te ne sei andato?» Mia sorella era incredula.
«E’ tornato, dopo quasi un’ora.»
«Davvero?»


Sentii la porta aprirsi mentre mi stavo vestendo. Avevo fatto la doccia dopo aver raccolto tutte le mie cose, avevo ancora i capelli bagnati e il profumo del suo bagnoschiuma sulla pelle. Nessun altro aveva le chiavi, quindi era ovvio che fosse lui. I miei bagagli erano in corridoio, pesanti e pieni della mia vita. Avevo rubato la foto che avevamo in camera, troppo codardo per lasciarmi indietro tutto.
Presi un respiro profondo e uscii dal bagno per trovarlo seduto sul letto, in camera.
«Hai dimenticato qualcosa?» Dissi, cercando di non farmi montare dalla rabbia. Avrei voluto rispondere io a quella domanda, perché aveva dimenticato un milione di cose.
«Te ne vai?» Invece mi chiese.
«Tu cosa dici?» Dovevo ricordarmi che cercavo di stare calmo per il bene di entrambi.
«Perché?» Ma proprio non ci riuscivo, soprattutto se si comportava come un immaturo del cazzo.
«Mi fai davvero questa cazzo di domanda?» Risposi e, arrabbiato, lanciai l’asciugamano per terra.
«Hai detto che puoi stare qui tre giorni.»
«Con una persona che non mi vuole?» Inarcai il sopracciglio.
«Non è che non ti voglio, Brian.» Si passa una mano dietro il collo, nel classico segnale di quando è spaesato.
«E allora cosa?»
«Stai per partire, cazzo!» Scosse la testa. «Cerca di capirmi. E’ piovuta tutta questa merda da un momento all’altro e… non so cosa fare!» Scoppiai a ridere, una di quelle risate amare e tese.
«Da un momento all’altro, mi dice! Sono mesi che parliamo di questa ipotesi, mesi che non facciamo altro che litigare e litigare e litigare ancora. Mi sembra di essere su un campo minato da settimane. Non ci parliamo, non ci baciamo, non scopiamo neanche più! E adesso che l’ipotesi si è concretizzata tu mi dici che devi andare al lavoro e neanche mi saluti.» Ero fuori di me dalla rabbia.
«Brian, devi cercare di capirmi.»
«No. Basta. Sono stanco Jack. Questo è il mio lavoro, la mia vita, sono le mie scelte. Se non sei in grado di capirle, di appoggiarmi, di condividerne una parte allora vuol dire che non mi ami come credi e vuol dire che non potremmo mai stare insieme.»
«Mi chiedi di condividere la tua voglia di andare a morire, merda!»
«No, ti chiedo di amarmi!» Gridai a pieni polmoni. «Amare una persona significa che, nonostante tutto, le sue scelte sono un po’ anche le tue.»
«Brian, io ti amo.»
«No. Non mi ami. Forse una volta, forse i primi tempi, forse prima di quando tutto questo casino è iniziato.»
«Non dire così.»
«Sono stati mesi di merda, Jack. Non puoi neanche immaginare cosa volesse dire alzarsi con il terrore di litigare con te, per poi non parlarti, non baciarti, non toccarti. Andare ogni giorno alla base e avere la paura che mi chiedessero di partire, perché sapevo che in quel momento tra me e te sarebbe finito tutto. Così ho vissuto in questi mesi.»
«Ti avevo detto che potevamo cambiare vita, insieme.»
«No, merda. No. Io non voglio cambiare vita. Io voglio partire. Voglio fare questa cosa, ci credo fino in fondo. Credo in quella cazzo di divisa e credo nel mio cazzo di nome cucito sopra. Questa è la mia vita. Questa è la mia scelta. Ho perso mia madre e mia sorella per portare avanti la mia idea, il mio credo. E adesso… sto perdendo te.»
«Brian… io…»
«Tu. Tu non ce la fai. Tu non puoi. Tu non hai mai voluto neanche provarci.»
«Non dire così, non è vero. Cosa sono stati questi anni?»
«Un’enorme, abissale, bugia.» Risposi allargando le braccia. Scossi la testa e mi infilai la maglietta nera.
«No. Ti amo Brian, ti amo davvero. Questi anni con te sono stati meravigliosi, io sono stato bene, ero felice e ti amo davvero. Devi credermi.»
«Ti credevo. Mi fidavo di te, ti avrei affidato la mia vita. Ma ora? Ora ti guardo e mi chiedo cosa cazzo ci sia successo.»
«Il tuo lavoro è pericoloso, Brian. Come fai a non capirlo?»
Mi infilai i calzini restando in equilibrio su una gamba. Poi cercai le mie scarpe per la camera.
«Sai cos’è pericoloso Jack?» Scosse la testa. «Restare soli. Partire, andare lì, fare il mio lavoro e sapere di essere da solo. Di non avere qualcuno che mi ama abbastanza da aspettarmi. Questo è pericoloso. Questo fa più paura di ogni altra minchiata, di ogni altra paura.»
Avevo gli occhi lucidi e il cuore pieno di rabbia. Non ce la facevo più. Dovevo uscire da quella casa, lasciarlo da solo, permettergli di andare avanti con la sua vita e, un giorno, essere felice se si fosse costruito la sua famiglia come sperava. Voleva una casa con il giardino, un compagno per la vita, un cane… Voleva qualcuno che ci fosse sempre. Io non ero quel qualcuno. Io ero solo una parentesi.
«Brian… non te ne andare. Resta qui stanotte, stiamo insieme. Non posso… Ti prego. Non voglio che tu te ne vada. Questa è l’ultima volta che stiamo insieme non voglio ricordare questa discussione, non voglio… » Sapevo che anche i suoi occhi erano pieni di lacrime, ma per quanto lo amassi, e lo amavo davvero da morire, dovevo salvare quel piccolo pezzo di cuore che mi era rimasto.
«E’ l’ultima volta che stiamo insieme perché l’hai voluto tu. Ti avrei seguito in capo al mondo se non mi avessi chiesto di scegliere, sarei sempre tornato da te, Jack. Se tu mi avessi aspettato, se fossi stato coraggioso e mi fossi stato vicino, e avessi scelto di stare con me, fino in fondo, io sarei sempre tornato da te. Ovunque fossi. E questa non sarebbe stata l’ultima volta, non sarebbe stato un addio o la fine della nostra storia. Sarebbe stato solo un arrivederci un po’ triste.» Avevo indossato le scarpe e stavo mettendo la piastrina attorno al collo, i miei dati su un pezzo di ferro. «Quello sarebbe stato amore… questo?» Indicai la stanza e me e lui con un gesto delle braccia. «Questo non so cosa sia, ma sono sicuro che non è amore.»
Non mi rispose, abbassò la testa e si guardò i piedi. Le vidi le lacrime scorrergli lungo le guance, ma dovevo essere forte e andarmene o quel brandello di cuore che mi era rimasto si sarebbe disintegrato.
Feci per uscire dalla camera, poi mi voltai. Mi guardai attorno, cercai di vedere se avevo preso tutto e poi notai una foto. Non la ricordavo neanche più. Era sul suo comodino.
Ce l’aveva scattata un collega, con il telefonino, mentre eravamo al pub, una sera. Eravamo vicini e ci guardavamo, entrambi sorridevamo e ci guardavamo negli occhi. Era scura, non si vedeva bene e la qualità non era buonissima. Eppure lo sguardo di quei due ragazzi era lucido di amore, un sentimento così diverso da quello che c’era in quel momento nella stanza e che mi disintegrava l’anima. Avevamo perso tutto.
«Merito di essere felice nonostante le mie scelte, Jack. Merito qualcuno che mi ama davvero, che mi sostiene, che mi aspetta perché non può vivere senza di me. Merito qualcosa di bello dalla vita che mi salvi dallo schifo che vedrò nel mondo. E merito… » Feci una pausa perché era difficile, difficile guardarlo piangere e non baciarlo, andare via e mettere fine a tutta questa storia. «Merito qualcuno che abbia paura con me, che non mi volti le spalle, che mi tenga la mano e che, nonostante tutto, stia al mio fianco. E forse tu meriti le stesse cose, ma in questo momento sono incazzato come una bestia e mi auguro solo che tu capisca cosa abbiamo perso, perché ti amo più della mia cazzo di vita e tu invece mi hai lasciato solo.» Mi girai e afferrai i miei borsoni prima di uscire da quella casa. Non avevo più niente.

«Merda.» Disse mia sorella piangendo. Si asciugò le lacrime con la manica del pigiama. «E’ così… straziante.»
«Già.» Dissi con il fiato corto. Ricordare quei momenti mi aveva sempre fatto venire voglia di urlare e di piangere. Ero stremato. «E poi… sono partito. Ha cercato di chiamarmi prima che io salissi su quell’aereo, ma ormai era troppo tardi. Quello che aveva da dire, in quel momento, non mi interessava.»
«Avrebbe potuto dirti che ti avrebbe aspettato.» Vero, avrebbe potuto. Quante volte ci avevo pensato? Tantissime. In cuor mio ero convinto che mi avesse cercato per dirmi quello, per dirmi che mi amava davvero, che gli sarei mancato, ma che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi. Invece, quando mi lasciarono tornare a casa venti giorni perché la missione sarebbe durata più del previsto, capii che quello che avrebbe voluto dirmi, durante quella chiamata, sarebbe stato solo un saluto.
«No.»
«Come fai ad esserne sicuro?»
«Perché quando sono tornato a casa, sei mesi dopo per una pausa, l’ho cercato. Avevo chiesto ad un amico di un amico informazioni su Jack, aveva ottenuto l’indirizzo di casa, il luogo di lavoro. Non sono neanche passato da mamma, sono volato direttamente a Chicago per trovarlo.»
«Mi sa che piangerò di nuovo. Merda!» Mormorò e quasi mi venne da ridere, se non fossi stato troppo impegnato a pensare a quei giorni.
«Durante il volo ero agitato peggio di un quindicenne, non ero mai stato così fottutamente agitato nella mia vita e ne avevo fatte tante. Trovare il suo appartamento fu relativamente semplice, grazie al taxi che avevo preso. Ma trovare il coraggio per suonare al citofono era un’altra cosa. Così sono rimasto seduto al bar di fronte a casa sua per ore. Non volevo bere, così presi solo una birra leggera e guardai il portone per tutto il tempo. Non so cosa mi aspettavo. Non lo so davvero. Ma quando lo vidi rischiai di cadere dallo sgabello e di farmi male sul serio. Era ancora più bello di quanto ricordassi. Era… felice. Così mi resi conto che non era da solo. Al suo fianco, mano nella mano, c’era un ragazzo mingherlino come lui e con un tatuaggio sul lato del collo. Ridevano. Parlavano. Fin lì tutto bene. Quando però li vidi baciarsi… capii che era troppo tardi.» In realtà in quel momento il mio cuore si ridusse in frantumi, completamente. Mi mancò il respiro e strinsi talmente forte la bottiglia di birra che la ruppi. Ero deluso, amareggiato, distrutto. «Era davvero finita, ed io mi sentivo così stupido nell’averci sperato anche solo per un attimo, che passai la serata ad ubriacarmi in quel bar, sotto casa sua. Il proprietario chiamò un taxi e mi fece portare all’hotel che avevo prenotato e, il giorno dopo, svegliatomi con un post sbornia da paura… prenotai il volo di ritorno per quel pomeriggio. Passai le mie tre settimane di riposo alla base, da solo.»
Il corpo di mia sorella era scosso dai singhiozzi e le lacrime ormai scendevano incontrollate.
«Brian. Merda. Mi sento così in colpa.» Non glielo stavo raccontando per quello.
«Lo so, piccola.»
«Mi dispiace così tanto.» Si lanciò su di me e mi abbracciò stretto ed io non sapevo cosa fare se non stringerla più forte e baciarle la fronte. Era mia sorella, avevo fatto anche io degli errori e per quanto il suo voltarmi le spalle mi avesse ferito, il mio cuore si era ricomposto stasera. Non mi serviva altro per il momento, solo lei.
«Mi sei mancata da morire.»
«Lo so, merda. Lo so, adesso.»
Sospirai e la strinsi più forte.
«Te lo prometto Brian.» Mi disse alzandosi e guardandomi negli occhi. «Non ti lascerò più solo. Mai più. Puoi contare su di me, quando vuoi. Ti voglio bene, le tue scelte sono state difficili ma…» Scosse la testa e strinse i pugni. «Sono con te. Sempre. Ora ho capito.»
L’abbracciai ancora più forte e restammo così fino a che fuori non iniziò ad albeggiare.
Mi sentii in colpa perché non l’avevo fatta dormire ma lei mi stupì ancora.
«Non abbiamo dormito, sarai distrutto.»
«Non si dorme molto, al campo. Ci ho fatto l’abitudine, ormai.»
«Qui non sei al campo, in una branda sbrindellata. Qui sei a casa, nel mio letto Brian. Dovevo farti sentire bene e farti riposare.»
«Fidati, l’hai fatto.» Sospirai e le baciai ancora la testa. «Non parlavamo così tanto da una vita, Bella. Avevo bisogno di tirare fuori questa storia con qualcuno che mi capisse, che mi amasse.»
«Quando vuoi, Brian.» Mi strinse forte e restammo stesi sul letto per un’altra ora. Poi lei si alzò e strinse le mani tra loro, mi guardò sorridendo e seppi che aveva in mente qualcosa. Mia sorella era una pazza.
«Forza, alzati. Fatti una doccia, beviamo un caffè e ti porto in giro per la città. Voglio portarti a fare colazione in una pasticceria dove prenderai quindici chili solo con il profumo e poi andiamo a Central Park e devo comprare qualche regalo di Natale e tu, signorino, devi comprarti un abito elegante perché devi venire alla festa di Natale della CullenHale.»
«Bella, resterei a letto volentieri.» Risposi sbadigliando.
«Dormirai stanotte, dopo una pizza in compagnia e qualche risata. Sei forte no? Puoi resistere una giornata senza dormire.»
La guardai sorridendo, mentre pensavo a tutte le giornate che avevamo passato senza dormire, con la paura, l’angoscia e le immagini del sangue che ci tormentavano. Lei si accorse di cosa passava nel mio sguardo e scosse la testa.
«Oh no, bello mio. No, assolutamente no. E’ quasi Natale. Sei qui per riposarti, divertirti e stare bene. E’ quello che farò. Forza! Vado a preparare il caffè, tu vai a farti la doccia!»
Sorrisi davvero e mi alzai con calma dal letto, afferrai il telefono dal comodino e guardai l’ora, erano le otto e mezza, lei sarebbe dovuta andare al lavoro ma era lì per me. Sentii i rumori in cucina e mi rilassai per un attimo, sembrava così normale.
«Brian!» Gridò dalla cucina. «Non sento l’acqua scorrere!» Ridacchiai, era come i vecchi tempi.
«Vado, vado!» Lasciai il telefono sul comodino e mi alzai, il mio sguardo cadde sul mobile sotto lo specchio in camera. Una foto ritraeva Bella sulle mie spalle, con un ciuffo di capelli tra le mani e un sorriso birichino sul volto, in un’altra c’era la mamma, mi teneva una mano sulla testa e sorrideva ad un piccolo fagotto tra le sue braccia. Poi ce n’erano altre due… Completamente diverse, che mi lasciarono senza fiato.
In una c’era papà, sorridente, con la divisa addosso e con una Bella sorridente sulle sue gambe, mentre io tenevo in mano una torta con scritto “Auguri papà”. Ricordavo il suo ultimo compleanno, gli avevamo preparato una sorpresa per quella sera, era tornato stanco dal lavoro ma la mamma gli aveva preparato i suoi piatti preferiti e noi lo avevamo accolto cantando “Tanti auguri”. Era così felice che quasi si mise a piangere.
L’altra foto ritraeva me e Bella.
Eravamo seduti nel prato di fronte a casa, uno di fianco all’altro mentre guardavamo il cielo. Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri.
L’avevo trovata con una mia felpa sbrindellata ed un paio di jeans logori seduta sull’erba, aveva le lacrime agli occhi e non aveva fatto in tempo a nascondersi da me.
Avevo capito subito che c’era qualcosa che non andava e il suo rituale, quando pensava a papà, era guardare il cielo e isolarsi dal mondo. Così pensai di unirmi a lei per vedere che sensazione dava, fermarsi un secondo e pensare, provare a parlare con mio padre attraverso le nuvole.
Restammo fuori per tutto il pomeriggio, solo alla fine mi disse che aveva paura di dimenticarlo perché era passato già così tanto tempo e lei aveva passato poco tempo con lui, non se l’era goduto abbastanza. Mi sembrò così fragile, in quel momento, ma allo stesso tempo forte e determinata a ricordarsi ogni singolo dettaglio di papà, perché non voleva perdere neanche il suo profumo tra i ricordi.
Non avevo potuto dirle niente perché ogni frase, ogni cosa che mi veniva in mente era così banale da risultare inutile. Restai in silenzio e mi avvicinai fino a prenderla tra le braccia. Le mi disse grazie e mi chiese di non abbandonarla mai, di non lasciarla mai. Una settimana più tardi l’esercito mi rispose per l’arruolamento e tradii la mia promessa.
Mamma doveva averci scorto in giardino e aveva deciso di portare un ricordo con sé, nonostante non sapesse cosa stesse succedendo perché non dava più importanza ai nostri sentimenti da un bel po’ di tempo. Eravamo due bimbi cresciuti in fretta, ma estremamente fragili in quel momento.
«Brian! La doccia!» Cacciai le due lacrime formate a lato dei miei occhi e mi precipitai in bagno per non doverle mostrare il mio viso stravolto. Sotto la doccia i pensieri si affollavano e facevano male. Un dolore così acuto che neanche le ferite in battaglia le ricordavo così potenti.
Uscii dal bagno con un paio di jeans e l’asciugamano a coprirmi la testa, mentre mi asciugavo i capelli. Sentii solo il sospiro terribile di mia sorella e mi ghiacciai. Ero abituato al mio corpo, ormai, non c’erano molti specchi alla base, ma avevo visto con i miei occhi le numerose ferite che mi ricoprivano il petto e la schiena. Avevo dimenticato che quella era casa di mia sorella e che sarebbe potuta entrare in camera in qualsiasi momento.
«Che diavolo…» Non riuscì a terminare la domanda, ma la compresi ugualmente. Cercai di scrollarmi di dosso il disagio per averle mostrato i segni fisici delle mie scelte e afferrai la prima maglietta che trovai nel borsone.
«No, non ti coprire.» Non la ascoltai e in fretta mi infilai la maglia, incazzato con me stesso per essermi dimenticato la promessa fatta a me stesso.
Cercai i calzini nel borsone e la ignorai mentre mi chiamava.
«Fidati Bella, non vuoi ascoltare quella storia. Fai finta di non aver visto.»
«Brian!» Il mio nome risuonò forte nella camera e mi fece alzare lo sguardo su di lei, avevo ancora quella rabbia verso me stesso che bruciava dentro, ma nei suoi occhi vidi il timore, la paura e il terrore agitarsi così violentemente che cercai di calmarmi, per lei. «Non ho più cinque anni, non ho bisogno di essere protetta dal male del mondo. Sono qui, voglio saperlo.»
Sospirai forte, prendendo il cellulare che Robert aveva amorevolmente custodito per me e infilandomelo in tasca. Avevo detto a mia sorella troppe cose in ventiquattrore, avevo la necessità di staccare dalle emozioni forti che impregnavano l’aria e di concentrarmi sulla leggerezza e spensieratezza delle feste di Natale. Era una vita di tempo che non osservavo le luci luminose e una città preda del cambiamento natalizio, mi mancavano persino i Babbo Natale agli angoli delle strade.
«Brian, non mi ignorare!»
«Vestiti, andiamo fuori, sto morendo di fame!» Non potevo cambiare così abilmente discorso con lei, ne ero certo, eppure ci provai.
«Non funziona così.» Si spoglia di fronte a me restando solo con l’intimo addosso mentre si infila un paio di pantaloni aderenti pesanti neri e un maglione verde che le arriva a metà coscia. «Sto aspettando.» Insiste mentre afferra i suoi stivali caldi e li infila stando in equilibrio su una gamba sola.
«Hai avvisato Edward che parteciperemo anche noi alla serata?» Mi ricordai che ieri sera, o stanotte a seconda dell’ora, mi aveva promesso che l’avrebbe fatto.
«Lo farò solo se mi racconterai cosa sono quelle cicatrici.»
Ridacchiai e scossi la testa mentre recuperavo il mio giubbino dal borsone.
«Non funziona così Bella, ti ho raccontato quello che volevi sapere ieri sera proprio perché avevi promesso che lo avresti fatto, quella che non mantiene le promesse sei tu, non io!»
Mi rendo conto di quello che ho detto solo nel momento in cui non si sente volare neanche una mosca in tutta la casa. Persino Poppy è rimasta ferma all’entrata della camera, immobile come la sua padrona. Non volevo ferirla, davvero. «Bella, mi dispiace. Non volevo che uscisse così quello che ho detto.» Scusarmi era sempre stato difficile, ma ho perso il conto di quante volte l’ho fatto con mia sorella, anche senza che lei sapesse.
«Non importa. Non è successo niente.» Si chiude in bagno per quelli che sembrano minuti interminabili e io mi siedo sul letto, mentre l’aspetto. L’occhio mi cade di nuovo su quella foto, quei due ragazzi che sembrano così lontani anni luce da quelli che siamo oggi.
Non abbiamo mai litigato da piccoli, c’è sempre stato un bellissimo rapporto tra me e mia sorella, uno di quelli da far invidia. Certo, alle volte è capitato che ci urlassimo contro, ma dopo due minuti era tutto come prima. Dal momento in cui la notizia della mia partenza si stabilì in casa come una certezza, invece, lei iniziò a non parlarmi più. Non gridò neanche quella volta.

Rigiro tra le mani la lettera, mentre aspetto che Bella e mia madre prendano posto per la cena. Dovrei parlargliene in un altro momento, dovrei dirglielo quando siamo seduti sul divano tutti insieme e non rovinare questo pasto. Ma, ormai, è così difficile che mia madre voglia guardare la televisione con me e mia sorella che questo è davvero l’unico posto giusto.
Sento scendere le scale di corsa con il passo veloce di Bella e poi sento mia madre dirle che ha una strana sensazione e che di colpo le è passata la fame.
Non ho ancora detto nulla e già nell’aria si percepisce la tensione, come se da solo riuscissi a emanare tutta l’incertezza e la paura di questa notizia.
Quando prendono posto, ognuna di fronte al piatto pieno che mi sono preoccupato di riempire, mi osservano.
Non so cosa si legge sul mio volto, probabilmente tutto perché la forchetta di mia madre si riappoggia debolmente sul tovagliolo e mia sorella sposta il piatto più lontano.
«Che succede, Brian?»
Non puoi mentire alla tua famiglia. Mai.
«Devo dirvi una cosa. Non so come la prenderete ed ho una paura fottuta a dirvelo ma…»
«Ci stai facendo preoccupare, stai male? E’ successo qualcosa a scuola? Non ho sentito nulla io.» Mia sorella cerca di vedere se ho qualche livido, temendo che io abbia fatto a botte con qualcuno, anche se credo che la paura più grande sia che io stia male.
«Vorrei davvero che nel momento in cui vi dirò quello che devo, vi ricordate che sono Brian Swan, tuo figlio e tuo fratello.» Dico guardandole negli occhi una per una.
«Brian, così mi spaventi. Che succede?»
«Succede che… qualche mese fa ho scelto cosa fare nel mio futuro e insieme alle varie domande del college che ho spedito... ho provato anche l’accademia militare. Questa settimana ho fatto le visite mediche e i test fisici. Devo presentarmi in Accademia alla fine di Luglio.»
Ho guardato dietro le spalle di mia madre per tutto il tempo mentre parlavo come un disco rotto, così non ho visto l’espressione dei loro volti. Quando mia madre si schiarisce la voce e tenta di dire qualcosa mi faccio coraggio e le osservo. Vorrei non averlo mai fatto. Non dimenticherò mai i loro sguardi pregni di terrore e paura.
«Perché Brian?» Chiede solo mia madre.
«Perché credo nelle stesse cose e negli stessi valori in cui credeva papà. Perché so che è la scelta giusta per il mio futuro e che sarò soddisfatto di aver servito il mio Paese. Perché nessun college mi ha fatto sentire eccitato come l’idea di indossare una divisa e di fare qualcosa per la gente.» Tentare di spiegare in poche parole e con il nodo in gola quello che mi aveva portato a scegliere quella strada è molto difficile, ma per un brevissimo attimo vedo negli occhi di mia madre la comprensione.
«Tuo padre, prima di entrare in polizia, era un militare. Ci siamo conosciuti durante uno dei suoi periodi di licenza, aveva solo due settimane in cui poteva stare con la sua famiglia. Io mi ero trasferita da poco di fianco alla casa dei suoi genitori e quando una mattina lo vidi lavare la sua macchina, credo di essermi innamorata del suo sorriso spensierato proprio quel giorno.» Prende un respiro profondo e torce le mani tra loro. «A quei tempi non c’erano i telefoni, né i computer, né la possibilità per lui di tornare a casa quando voleva, perché lo sai bene, all’epoca il nostro Paese era in fermento e c’era sempre più bisogno di forze armate ovunque. Non poteva promettermi nulla. Non poteva darmi nessuna speranza. Così mi diede il più bel bacio della mia vita alla fine di quelle due settimane e mi disse che se Dio avesse voluto ci saremmo visti alla prossima licenza.»
Non avevo mai ascoltato quella storia, nonostante mia madre parlasse volentieri di papà quello era ancora qualcosa di segreto.
«Lo aspettai, Brain. Aspettai per settimane e mesi lunghissimi, mi affacciavo ogni mattina dalla finestra sperando di vederlo lavare la sua auto come quel primo giorno. Ogni mattina mi dicevo che se non era quel giorno, sarebbe stato quello dopo. Ho avuto speranza, fede, pregavo Dio che lo proteggesse e, alla fine, dopo undici mesi quando mi alzai pronta per andare a lezione lo trovai lì fuori, seduto sugli scalini del portico dei miei genitori. Indossava una maglia verde con i pantaloni neri e aveva in testa un berretto di lana. Mi sorrise e mi disse che Dio aveva ascoltato le sue preghiere.» Non so perché mi stava raccontando quella cosa, ma ogni piccolo pezzo della loro vita, per me, era un tesoro.
«Cosa successe poi?» Chiede mia sorella.
«Riuscimmo a stare insieme tre mesi, poi fu richiamato in missione. Prima di andarsene mi mise un anello al dito e mi chiese di avere fede ancora, di aspettarlo, di pregare per lui e per noi. Tornò sette mesi dopo con una cicatrice sulla gamba e gli occhi pieni di paura, ma ci sposammo lo stesso.» Prende fiato mentre noi restiamo in silenzio. «Ho sempre saputo che la sua vita era divisa in due. Ha sempre creduto che fosse il suo ruolo quello di far parte degli angeli che tengono sicuro il nostro Paese. Mi sono innamorata di vostro padre anche per i suoi valori, la sua tenacia e il suo senso patriottico. Ho avuto fede, ho pregato, ho sperato ed ho aspettato tanto. Tantissimo, ragazzi.» Mi fissa negli occhi mentre dice le ultime parole. «E’ stata molto più dura avere speranza, sangue freddo e fede quando è tornato definitivamente a casa, cambiato radicalmente.» Sospira e abbassa gli occhi per un attimo prima di rialzarli, delusi e distaccati verso di me. «Non ho più fede, Brian. Mi è stata strappata quando papà è morto anni fa. Non ho più voce per pregare perché tutte le mie preghiere, quel giorno, non sono state ascoltate. Non ho più tempo per aspettare… non ho più la forza per aspettare. La scelta è tua, so che tuo padre la condividerebbe, so che ti accompagnerebbe in accademia e sarebbe orgoglioso di te. Io, in questo momento, non riesco ad esserlo. Non ho più nulla da dare. Sii prudente, sii forte, sii te stesso e non cambiare mai.» Si alza dalla sedia e con passo strascicato si chiude in camera.
«La mamma… se n’è andata?» Ero incredulo che mi avesse raccontato questo pezzo della sua vita per poi sparire e dirmi, come ultima cosa, che non aveva più la forza per pregare per me.
Bella si alza in piedi e sistema con tranquillità la sedia sotto il tavolo, poi si appoggia al bancone della cucina.
«Sì, e forse io dovrei fare la stessa cosa.» Scuote la testa mentre mi guarda. «Ci hai pensato Brian? Hai pensato a cosa tutto questo significa? A cosa, la tua scelta, porterà nella nostra famiglia?»
«Sì.» Mi sono detto che erano forti, che potevano farlo, che mi avrebbero capito.
«Quindi vuol dire che semplicemente non ti importa niente della mamma, di me.» Sospira e vedo le sue mani stringersi a pugno. «Abbiamo già perso papà a causa dei suoi valori, del suo lavoro. Dobbiamo perdere anche te?»
«Non mi perderete.»
«E’ una promessa? O è quello che speri? Perché sai, Brian, nessuna persona ha il diritto di dire una cosa del genere, tantomeno un militare.»
«Non è un promessa, Bella. Intanto faccio l’accademia, ci sono altre strade oltre a quella del campo di battaglia.»
«Sentiamo, quali sono?» Poi scuote la testa e parla ancora prima che possa prendere parola io. «Sai che c’è? Non mi interessa. Davvero. Sei sempre stato libero di fare le tue scelte, hai preso questa strada che ti porterà lontano da noi, che ci farà preoccupare ogni secondo delle nostre giornate per il resto della vita. Se non sei in grado di capire come questo rovinerà la nostra famiglia per sempre, non sono io a dovertene parlare.» Se ne va anche lei, dopo avermi lanciato uno sguardo dispiaciuto.


La sua voce che mi chiede cosa guardo mi strappa dal ricordo.
Le indico la foto da cui i pensieri si sono scatenati e lei sorride.
«Quello è stato il giorno più bello di quell’anno. Io e te a parlare con papà in silenzio, mentre in silenzio rafforzavamo l’affetto che univa me e te. Se non fosse stata per la notizia che ci hai dato qualche settimana più tardi sarebbe stato tutto bellissimo.»
Non potei darle torto.

Nessun commento:

Posta un commento