martedì 16 aprile 2019

Capitolo Diciassette


Quando mi sono svegliata, ieri mattina, circondata dal calore del corpo di Edward mi è preso il panico. Non una piccola crisi isterica sul mio corpo nudo e burroso, ma su tutta un’altra serie di cose che è difficile anche ammettere. Mi sono irrigidita notando che il letto non era il mio e che mi trovavo nuda, completamente, nel letto di un uomo che non so che futuro possa darmi. Ho avuto anche io le mie avventure prima, qualche ragazzo che durava qualche mese e poi via, velocemente veniva sostituito dal candidato seguente. Ma non sono mai stata quella di una notte e basta, ho sempre ricercato qualcosa in tutti i ragazzi che frequentavo. Eppure non mi sono mai sentita così sporca e, allo stesso tempo, così bene come ieri mattina.
Avere la consapevolezza di aver fatto l’amore con il mio capo, un uomo che ha tra le mani il mio futuro, che ha condotto fino a un secondo prima una vita libertina e superficiale e che mi ha licenziata già una volta, mi ha fatto sentire oppressa. Il pensiero di non sapere cosa tutto quello ci avrebbe portato, come avremmo affrontato ‘la mattina dopo’ mi ha messo un’angoscia terribile. Edward ha parlato di relazione, quando ero seduta sulle sue gambe, prima che lui entrasse dentro di me, nel bel mezzo della mia crisi di bellezza… ha usato parole meravigliose che avrebbero scaldato il cuore di ogni ragazza e l’avrebbero fatta sperare in qualcosa di più che una semplice scopata. E forse per un attimo è stato così anche per me.
A mente lucida, però, mi sono resa conto di quanto le cose siano drammaticamente diverse.
Non ci può essere nulla di solido tra noi. Lui ha una pietra che si porta appresso senza volerne neanche mostrare un angolino, io ho un passato che non voglio mettere in mezzo. Cosa penserebbe di me? Cosa penserebbe della mia famiglia? Delle mie scelte? Chi mi assicura che il dolore che provo dentro non esploda un giorno ferendolo? Chi mi da la certezza che i suoi fantasmi passati non siano così crudi, brutti, angoscianti e difficili da sopportare e superare? Lui evita le relazioni come la peste, penso proprio perché non sa cosa voglia dire amare… o forse perché ha troppa paura di affezionarsi a qualcuno e poi perderlo. E’ un sentimento che annienta, a lungo andare.
Le mie relazioni non sono mai durate troppo per dirlo, mi sono sempre fermata prima perché c’era sempre qualcosa che non andava nei miei partner… o forse ero io che ero sbagliata per loro. Quello che è sicuro è che nessuno ha mai condiviso con me la notte piena di incubi e nessuno sa come comportarsi con me quando ho una giornata molto negativa. Edward è irascibile, forte, presuntuoso e adirato già di suo. Ha un suo personale fuoco che brucia dentro, che arde ancora prepotentemente nonostante il tempo passato, se si trovasse di fronte una con un caratteraccio come il mio, nel momento di buio, esploderebbe qualsiasi edificio nelle vicinanze. Siamo troppo simili per certi versi e questo ci impedisce di stare assieme.
Ecco perché ieri mattina mi sono goduta il suo profumo e mi sono alzata di soppiatto per andarmene, prima che tutto diventasse troppo bello per poter fuggire, troppo intenso per potersi lasciare. Potevo pensare prima a tutte queste cose, prima di andarci a letto, prima di trascinare avanti quel qualcosa. Potevo riflettere qualche tempo prima su tutti i dubbi che mi hanno assalito quella mattina. Invece li avevo sempre messi da parte, lasciando parlare il cuore.
Ho raccolto i miei abiti sparsi per il pavimento del salotto, ho dato un ultimo sguardo a quella casa che avevo imparato ad amare e me ne ero andata. Solo in macchina, lontana dagli sguardi curiosi della gente, sono scoppiata in lacrime, dopo tanto tempo.
Andarmene è stata la cosa più difficile, ma allo stesso tempo la più semplice, che ho dovuto fare da molto tempo.
Non è amore quello che provo per Edward, o forse sì e non me ne rendo conto, ma so per certo che quella è la strada che stavo prendendo… e non potevo permetterlo.
Avrebbe voluto dire soffrire e farlo soffrire. La mia testa troppo incasinata non poteva assolutamente stare a contatto con una testa altrettanto incasinata. Questa è la verità.
Quando mi sono svegliata, però, tra le braccia calde e rassicuranti di un uomo meraviglioso, mi sono sentita in pace, libera per qualche istante e, soprattutto, felice. Penso di non essermi sentita felice come ieri mattina da molto tempo.
Non so come si sia sentito lui quando al mattino non mi ha trovata, probabilmente non così male come me, dato che non mi ha neppure cercata. Lui non sapeva di certo quali erano i miei pensieri e, non trovandomi, avrebbe almeno potuto mandarmi un messaggio. Forse mi sarei convinta che avevo sbagliato ad andarmene, che ero importante, che significavo qualcosa oltre la storiella passionale che era nata tra noi. Forse, se mi avesse cercata, avrei potuto convincere il mio cervello a quietarsi per qualche attimo e far andare avanti solo il cuore, perché magari ci voleva quel pizzico di speranza in più a farmi credere che potevamo creare qualcosa di bello nonostante tutto. Invece il telefono era rimasto muto, tutto il giorno. Questo è un altro motivo per cui so di aver fatto bene a tagliare la corda. E’ un uomo abituato a questo genere di fughe la mattina dopo, probabilmente in molte è lui quello che raccoglie i vestiti in silenzio e scappa, in altre invece è lui che caccia malamente le malcapitate dalla camera. In ogni caso, sono certa, non gli è nuova una situazione del genere.
E pensarci fa male.
Ho passato il resto della giornata a guardare vecchi film in cassetta, un ricordo che mi sono portata da casa e che appartenevano a mio padre. Le lacrime continuavano a scendere libere. Poppy si era stesa di fianco a me sul divano e muoveva la sua testina su e giù per le mie gambe, come se cercasse di confortarmi. Ho saltato tutti i pasti, concedendomi solo un bicchiere di latte prima di andare a letto.
Ho chiuso gli occhi ma ho faticato a dormire e quando alle tre mi sono svegliata in preda ai tremori degli incubi, ho deciso di continuare a guardare vecchi film, per non soffrire più.

Arrivare in ufficio è stato traumatico, la luce del giorno feriva i miei occhi come se avessi in corpo un dopo sbornia da campioni. Avevo cercato di coprire con il trucco le occhiaie violacee e avevo messo delle gocce negli occhi per cercare di renderli meno rossi e affaticati. Non sono stata di fronte allo specchio troppo a lungo, per non decidere di rimettermi sul divano sotto la mia coperta preferita. Dovevo affrontare la vita in ufficio come sempre. Speravo che lui non venisse ancora per questa settimana, ma conoscendo la sua dedizione al lavoro e la sua determinazione, immaginavo che non gliene fregasse poi molto delle istruzioni del medico di stare ancora  riposo. Ne ebbi conferma una volta parcheggiata la mia macchina, a pochi passi dalla sua. Era un testardo patentato, nonostante le indicazioni di non guidare e di non strafare era lì, con la sua auto, a lavorare probabilmente per dodici ore filate. Un sorrisetto mi colorò il volto tirato per la stanchezza e la preoccupazione; era sempre il solito bastardo presuntuoso.
Salii al mio piano ed entrai nel mio ufficio, quello che condividevo con Angela. Lei era già lì, impegnata in una telefonata e con una considerevole quantità di carte sulla scrivania, già alle otto e mezza del mattino.
La salutai con un cenno del capo, accesi il computer e tolsi gli occhiali da sole con un sospiro. Non feci in tempo neanche a sedermi che il telefono sulla scrivania squillò e apparve l’interno di Edward. Tirare su la cornetta fu un dramma data la mia agitazione, mi tremavano le mani e sudavo freddo.
«Buongiorno capo.» Non dissi altro, conoscendo il soggetto dall’altra parte immaginavo da me che non avrei avuto il tempo di dire molto.
«Nel mio ufficio, con tutte le campagne che stiamo gestendo e con l’agenda degli appuntamenti.» Sbrigativo, distaccato, freddo e impersonale.
Praticamente un uomo pronto a farti fuori.
Sospirai raccogliendo i miei occhiali da vista da dentro la borsa e indossandoli, più come arma di difesa che come utilizzo vero e proprio in questo momento. Afferrai tutti i faldoni sulla scrivania, con grande difficoltà, e ci piazzai su anche l’agenda; poi, come una persona che va incontro alla sua paura più grande, mi incamminai verso il suo ufficio. La distanza era troppo poca perché potessi calmarmi nel frattempo, e quando bussai alla sua porta ero ancora talmente agitata che le gambe tremavano considerevolmente.
La voce tonante mi invitava a entrare e non sapevo se fossi davvero pronta a scontrarmi con lui, così restai qualche altro secondo lì fuori a respirare profondamente. Quando mi sentii appena più sicura mi inoltrai nella gabbia del leone, con meno sicurezza e sfrontatezza del solito, e questo non era da me.
Non dissi niente fino a quando non fui seduta, poi sospirai di sollievo nel togliere tutto il peso alle mie gambe deboli; il mio respiro però non passò inosservato, purtroppo per me.
«Odio le persone che sbuffano tanto quanto quelle che sospirano. Se ti scoccia così tanto avere a che fare con me hai un’infinità di alternative per liberarti della mia presenza. In fondo sai bene come si usano le porte.» Non mi guardava mentre parlava, era troppo concentrato a scrivere velocemente qualcosa al computer. Dovetti mordermi la lingua per non rispondergli male, qui dentro eravamo capo e dipendente, anche se lui aveva intenzione di rendere le cose molto difficili. La sua frecciatina mi fece capire che non aveva intenzione di far finta di nulla, come avevo sperato.
«Non mi spaventa e non mi disturba lavorare con te, i faldoni erano pesanti e sono stanca questa mattina. Tutto qui. Possiamo cominciare?» Voltò la testa verso di me, puntando i suoi occhi dritti nei miei. Anche con gli occhiali indosso mi sentivo esposta a tutti i suoi attacchi, cosa che solitamente mi dava, invece, maggior sicurezza. Il trucco non nascondeva bene le occhiaie e, ci avrei scommesso, le gocce non avevano fatto miracoli per i miei occhi stanchi. In più c’era la tensione nel viso e la stanchezza che evaporava a vista dalla mia pelle. I capelli erano tirati in una crocchia bassa, blando tentativo di metterli in ordine. Sono certa, gli bastò uno sguardo per comprendere come avevo passato la nottata precedente, ma non disse nulla. Tornò a concentrarsi al computer per qualche altro secondo, finché io prendevo una penna e una matita e cominciavo a distribuire, secondo il mio ordine, i faldoni sulla sua scrivania.
«Mercoledì abbiamo un pranzo di lavoro all’hotel Magnum. Giovedì mattina verranno gli amministratori di LovleyInn per discutere di una proposta, prenota la sala bianca. Domani invece andiamo a fare un bel controllo per tutti i piani. Mi sono giunte delle comunicazioni davvero interessanti dal responsabile dei dipendenti e voglio verificare con i miei occhi. Venerdì sera abbiamo una cena di lavoro. Devono ancora farmi sapere i dettagli del luogo e dell’orario.» Snocciolava impegni a non finire, in disordine proprio per mettermi in difficoltà nel riportarli sull’agenda. In più, odiavo tutti questi impegni al plurale, come se dovessi partecipare anche io ad ogni riunione.
«Non dimenticarti che c’è da organizzare anche la cena aziendale per Natale.»
«Questa volta saltiamo. Non sono dell’umore adatto per festeggiare, né tantomeno per pensare a tutti i dettagli dell’organizzazione. Parlerò con Rosalie, ma sono certo che anche lei la pensa come me.» Dubitavo fortemente che la sua socia rinunciasse all’evento che metteva in mostra l’azienda, l’evento di Natale era fondamentale per ottenere finanziamenti esterni e nuovi clienti, dato che si spendevano dollari e dollari di pubblicità per l’evento.
«Non credo che Rosalie sia d’accordo.» Dissi mentre alzavo lo sguardo su di lui. «E’ un evento importantissimo per la società e temo che non sarà facile convincerla a cancellarlo. Tanto più perché credo che Angela stia già chiamando una lista delle società di catering disponibili a farci un preventivo.»
Il suo sguardo mi fulminò ed io mi feci piccola, piccola sulla sedia di fronte a lui.
«Fino a prova contraria qui dentro comando io. Con Rose ci parlo io e dì pure ad Angela di smetterla con le telefonate. C’è ben altro che si deve fare.» Sospirai a lungo, proprio per dargli fastidio e mi segnai sull’agenda la cena di Natale per il ventitré dicembre.
«Sei più testarda di un mulo.» Ringhiò tra i denti. Appoggiai la penna nel mezzo delle pagine dell’agenda e l’appoggiai sulla sedia al mio fianco.
«No, sono realista. Solo perché sei incazzato, con me soprattutto, non puoi rinunciare a uno dei momenti di maggior visibilità della società. Lo sai anche tu, solo che adesso vedi rosso e non ragioni abbastanza da potertene accorgere. Durante quella serata raccogliete il maggior numero di assegni da finanziatori esterni e guadagnate almeno dieci punti di percentuale sulla popolarità. Gli indici di qualità dell’azienda crescono in maniera esponenziale nel periodo di Natale perché mostriamo la nostra capacità di gestire gli affari in modo professionale, elegante e come un team unito che sa anche prendersi una serata di svago. Se la smettessi di ringhiare e fare il musone con me te ne accorgeresti. Per quello temo che non riuscirai a convincere Rose della tua idea.» Afferrai il primo faldone tra le mani e cominciai a sfogliare le varie pagine, fino ad arrivare all’idea vera e propria.
«Non giocare con il fuoco, Bella, perché resto sempre il tuo capo. Nonostante tra noi ci sia stato qualche momento libertino, resti comunque solo la scopata di una notte e soprattutto una mia dipendente. E anche se ieri hai avuto tu l’ultima parola andandotene, qui dentro sono io che comando e che decido su tutto, se non ti sta bene quella è la porta e la strada la conosci, è chiaro?»
Le sue parole furono stilettate al cuore, lo presero in pieno e lo martoriarono. Mi ricordarono, però, quanto la mia decisione di andarmene ieri mattina fu giusta. Stare con un uomo del genere non era il mio destino, le sue parole velenose mi avevano intorpidita e ferita più di molte altre.
Alzai lo sguardo, deluso e intristito da questo comportamento vendicativo, e fissai nei suoi occhi. Non ci vidi altro che freddezza e durezza, quella che ero abituata a vedere prima dell’incidente e che non mi mancava per niente. Amavo questo lato di lui sul lavoro, è un uomo di ferro quando deve accaparrarsi un affare o quando deve mettere in chiaro le cose con qualcuno se pensa di potersene approfittare lavorativamente parlando, ma nella vita di tutti i giorni, qui dentro come fuori, l’uomo con questo sguardo mi fa paura.
Non immaginavo che mi avrebbe reso la vita un inferno, nel momento in cui sarebbe tornato; pensavo invece di avergli fatto un favore andandomene. Le cose si stavano facendo troppo intense per entrambi e nessuno dei due era pronto ad affrontarle, questa è la verità. Invece lui sembra incazzato con me per aver preso la decisione di fuggire, anche se non mi ha neppure chiamata una volta in tutta la giornata di ieri; questo non era forse il chiaro monito di quanto poco gli interessava?
Non so quanto tempo restammo lì a fissarci, ma dopo quelle che mi parvero ore infinite abbassai lo sguardo ai fogli sulle mie gambe e mormorai un debole ‘Ho capito’ che ammazzò definitivamente l’orgoglio che portavo con me da molto tempo.
Il resto delle due ore lo passai a spiegargli i nuovi clienti e a discutere i casi che stavamo gestendo, leggendogli i preliminari dei contratti che si era perso, mostrandogli e chiarendogli le varie idee a cui avevamo lavorato e aggiornandolo sulle nuove cose aggiunte da quando ne avevamo parlato l’ultima volta. Cercai di ricordarmi che non dovevo contraddirlo, qualsiasi cosa dicesse, e che le idee che aggiungeva alle mie, anche se non mi piacevano o non le trovavo consone, andavano messe in risalto solo perché era stato lui ad annotarle. Quell’affiatamento negli affari che avevamo trovato per un breve momento era appena andato a finire nel cesso, con tanto di serenità e tranquillità nel lavoro. Non l’avevo più guardato negli occhi. Avevo tenuto lo sguardo sulle cartelline e sulle pagine tutto il tempo e quando dovevo alzare a forza il viso fissavo il muro alle sue spalle. Non c’era altro che potessi fare per mantenere integra la mia persona al momento.
Quando terminammo, dopo un’infinità di tempo, raccolsi le mie cose e mi sbrigai ad uscire, per non dover stare un secondo di più dentro quell’ufficio. Non fui troppo fortunata, perché quasi chiusa la porta mi richiamò dentro.
«Ho bisogno che tu venga in un posto con me, oggi a pranzo.»
Oh no. Neanche per sogno. Te lo puoi scordare, bello! Prima mi tratti come una merda, mi insulti, poi ti atteggi a superuomo e adesso hai bisogno di me? Col cazzo, carino!
«Oggi a pranzo sono impegnata, mi spiace non posso.» Non era vero, ovviamente, ma avrei chiesto un enorme favore ad Alice ed Emmett. Magari avrei anche chiamato Jasper e si sarebbe aggiunto. Non lo so, mi sarei inventata qualcosa.
«Non sono stato chiaro, probabilmente. Non era una domanda.» Era impossibile non guardarlo negli occhi a questo punto. La freddezza che aveva caratterizzato tutta la mattinata era ancora lì, ma la durezza di prima era evaporata e sembrava più avvicinabile.
«E la mia invece era una gentile declinazione al tuo ordine.»
«E se fosse un impegno di lavoro?» Alzò il sopracciglio verso di me.
Conoscendo la sua incline caratteristica alle bugie gli feci la mia domanda.
«Lo è?» Sospirò passandosi una mano tra i capelli.
«No.»
«Bene, quindi la mia risposta resta la stessa. Grazie, ma sono già impegnata.» Avevo ancora i faldoni tra le mani, pesanti e ingombranti, che scivolarono quando sbottò adirato alzandosi di scatto dalla sedia.
«Sei testarda, cazzo!» Proprio mentre a me scappava un’imprecazione colorita. Mi venne da piangere nel vedere tutti i fogli sparsi a terra, disordinati e mischiati tra loro, in una confusione che mi sarebbe costata fatica e tempo per sistemare: giusta metafora della mia vita in quel momento.
Mi piegai sulle ginocchia a raccogliere velocemente tutta quella roba e lo sentii avvicinarsi fino ad arrivare in ginocchio davanti a me. Allungò una mano per raccogliere alcuni fogli ma lo anticipai e li presi io, allontanando bruscamente la sua mano da quelle cose. Non volevo il suo aiuto, non volevo nient’altro da lui che silenzio.
«Bella, mi dispiace di averti spaventata, ma ho davvero bisogno che tu venga con me oggi.» Restai in silenzio, fino a quando non fui pronta per rialzarmi, con tutti quei fogli in bilico e in disordine tra le mie braccia.
«Sono costretta a dirti di no, Edward. Come hai precisato numerose volte questa mattina, tu sei il capo ed io resto solo la scopata di una notte e soprattutto una tua dipendente. Dal momento che l’impegno di pranzo non riguarda il lavoro posso declinare senza sentirmi in colpa o senza rischiare il licenziamento. Quindi, no grazie, ma ho già un impegno.» Girai i tacchi e mi fiondai lungo il corridoio verso il mio ufficio. Mi accasciai sulla sedia dietro la scrivania e sospirai talmente forte da spaventare Angela dall’altra parte.
«Sembra che tu sia appena stata in un frullatore. Che ti è successo?» Dovevo avere uno sguardo confuso e preoccupante perché si alzò in piedi e si avvicinò. «Stai bene?»
«No.» Sospirai di nuovo e passai le mani a sistemarmi i ciuffi ribelli che erano sfuggiti dalle mollette. «Ieri mattina ho lasciato Edward nel suo letto, dopo aver passato la notte insieme sono fuggita a gambe levate… credendo di fare un favore a entrambi. Non mi aspettavo di trovarmelo al lavoro oggi, né tantomeno di trovarlo incazzato e furioso, con una bella dose di aria vendicativa ad aleggiare attorno a lui. Mi ha dilaniata oggi e sono a pezzi. Ho solo la necessità di dormire e dimenticarmi di queste settimane.»
«Perché te ne sei andata?» Scossi la testa, non volendo spiegare le motivazioni che mi hanno convinta ad andarmene. Erano mie, nostre… anche se lui non le aveva mai sentite.
«Ti renderà la vita qui dentro un inferno e ti spingerà a licenziarti. Lo conosci.»
«Probabilmente è quello che dovrei fare, ma il lavoro mi piace, voi siete colleghi meravigliosi e, diciamocelo, non mi è andata così bene la prima volta.»
«Cosa farai quindi?»
«Quello che faccio da sempre, Angela, stringo i denti e vado avanti.» Prendo un profondo respiro e comincio a sistemare i fogli che erano disordinati. «Ah, dimenticavo. Elimina pure la cena di Natale dal calendario. Lui non vuole farla.»
«E’ impazzito?»
«No, è incazzato con me per cui non vede le cose chiaramente. Probabilmente Rose gli farà il culo a strisce quando verrà a saperlo ma per il momento abbiamo l’ordine incontrovertibile di disdire questo avvenimento. E, bada bene, ci ho già provato a dirgli tutta la pappardella di quanto questo evento sia importante. Mi ha ricordato che sono solo una dipendente e la scopata di una notte e che devo stare zitta o andarmene.»
«Oh mio Dio. Ma che diavolo è successo? L’ultima volta che abbiamo cenato insieme era sereno e felice come una pasqua.»
«Poi sono capitata io, con le mie manie… probabilmente non gli è stato bene che sia andata via da sola e l’abbia lasciato, voleva essere lui a mettere il punto alla situazione. Sai come sono gli uomini come lui, devono avere il controllo su tutto.»
«Dobbiamo parlarne tutti insieme. A pranzo oggi! Chiamo gli altri.» Non era stato per niente difficile trovare un impegno, come scusa per Edward.
Lavorare fu difficile, soprattutto quando ogni dieci minuti mi tornavano in mente le parole di Edward nel suo ufficio.
Non mi interessava quale necessità aveva oggi che includeva anche me, importava solo che aveva usato parole che si poteva risparmiare e che mi hanno ferito enormemente.
Stavamo parlando alla reception con Alice, prima di tornare al lavoro con le nostre tazze di caffè fumante, quando due cose accaddero contemporaneamente e mi destabilizzarono. Risposi alla telefonata di un numero troppo lungo sul mio cellulare e restai a guardare Edward che usciva dall’ascensore, con un diavolo per capello e si avvicinava a noi, con l’aria di chi stava facendo la marcia della vita.
«Pronto?» La mia voce, debole e spaventata aveva messo in allarme la persona dall’altro capo del telefono.
“Piccola, che succede?!” Dio, di nuovo lui. Alle giornate di merda non c’era mai fine.
Oltretutto Edward era arrivato davanti a me e non c’era nulla che Emmett potesse fare per ostacolarlo, era una macchina da guerra.
«Nel mio ufficio, subito!» Abbaiò l’ordine come se fossi il suo cagnolino, mentre dall’altra parte del telefono l’uomo continuava a chiamarmi spaventato.
«Quello che devi dirmi puoi farlo qui. Ho ancora un quarto d’ora prima di riprendere a lavorare.»
«L’impegno al quale non potevi sottrarti erano due chiacchiere e un pranzo monotono con i tuoi amici? Ti avevo detto che avevo bisogno di te, per colpa tua ho passato due ore di merda!» Non capivo per qualche ragione dovesse essere colpa mia ma lui sembrava convinto e incazzato, talmente tanto, che era impossibile fargli cambiare idea. Angela cercò di calmarlo insieme a Emmett, lo allontanarono di poco dal mio corpo, tanto che potessi riprendere a respirare, mentre ormai al telefono le urla erano insistenti.
“Bella, cazzo! Ci sei? Che diavolo sta succedendo?”
«Brian, per favore non è il momento. Ti ho chiesto centinaia di volte di lasciarmi stare. Perché continui a telefonarmi?»
«Dio, chissà mai perché, eh?! Forse perché mi manchi?»
«Già, certo. Se ti mancassi non saresti andato via. Se anche solo pensavi che ti potessi mancare non avresti mai fatto le scelte che hai fatto. Senti ora ho altri casini più importanti che stare qui a parlare con te. Hai una bella voce, stai bene. Sono felice per te. Buon Natale, ciao ciao.» Stavo per mettere giù il telefono quando la sua voce roca mi chiamò ancora.
“Piccola… per favore.” Sbuffai ma lasciai che parlasse. “Mi manchi davvero, tanto. E’ passato tanto tempo e tu non mi dai l’occasione di parlarti. So che sei arrabbiata con me, ma non negarmi queste telefonate. Ho bisogno di chiederti una cosa. Torno a casa per Natale. Posso stare da te per qualche tempo?”
Torna a casa per Natale. Fra poco più di un mese.
E vuole stare da me.
No, escluso. E’ fuori da ogni possibile ragione. Stare da me vorrebbe dire essere dilaniata dal passato per poi vederlo andare via ancora una volta. Non posso farlo.
«No Brian, non ho una stanza per te.»
“Dormirò sul divano.” Il pensiero di averlo con me, nel mio appartamento mi provocava cose mai sentite a livello di batticuore, però. Ho cercato così strenuamente di resistere ogni giorno, di non parlarci, di non cercarlo… ora invece l’idea che possa tornare, anche solo per poco, mi rendeva serena. Ma non lo avrei mai ammesso.
Ignoravo i presenti e lo sguardo accigliato e incazzato di Edward di fronte a me, che se ne stava lì con le braccia lungo il corpo e i pugni chiusi a lanciarmi occhiate infuocate.
Stavo decidendo cosa fare, per me era una cosa importante.
“Bella, piccola, mi manchi. Ho bisogno di vederti, di stare con te, di parlarti, di abbracciarti. E’ Natale, non farmi questo.” Non capivo se la voce era roca e sommessa per non farsi sentire da chi c’era attorno a lui o resa così per quello che si agitava dentro di lui. Prima di parlare io mi schiarii la voce, perché ero emozionata e tremavo per colpa delle sue parole. Non ce la facevo più a fare l’orgogliosa con lui.
«Il divano è fatto per guardare la tv, non per dormire. Quanto ti fermi?» Mi stavo ammorbidendo, e capivo perché tutto così di botto.
“Tre settimane. Poi volevo andare a trovare mamma e papà.”
«L’hai più sentita?»
“No.” Pensare che fosse solo, forse più di me, mi uccideva, anche se ero stata la prima a tagliarlo fuori dalla mia vita quando aveva scelto di andarsene.
«Puoi stare da me, ti sconsiglio di andare da lei, possiamo andarci insieme se ti va, ma non credo che sarà molto felice di vederti. Il resto… vedremo poi.»
“Se ti disturbo posso sentire un collega, abita da quelle parti. Mi basta vederti, parlarti…” Sarebbe stata la situazione più comoda per entrambi. Io libera e lui lontano da me. Eppure stava cambiando qualcosa dentro di me alla velocità della luce. Non volevo perdere nessuna occasione, sapevo benissimo da me che ogni lasciata era persa.
«No, mi casa es tu casa
“Ci vediamo presto, piccola.”
«Ciao Brian.» Pigiare la cornetta rossa fu un pugno allo stomaco.
Non parlavo con lui da tempo immemore e pensare di trovarlo qui, a breve, mi metteva allo stesso tempo paura e eccitazione. Non riuscivo più a mantenere il punto fermo con lui, più ci pensavo peggio era. Non ci potevo fare nulla, stavo ammorbidendo tutte quelle parti di me dure e forti che mi ero costruita con fatica.
«Te ne sei andata ieri e già programmi di passare le vacanze di Natale con un altro. Tutta quella farsa sul non essere la classica donna che mi porto a letto ti è riuscita proprio bene, sai? Dovevo capirlo l’altra notte chi eri davvero, in fondo sei stata proprio una gran bella scopata.» Mi guardò con disgusto prima di voltare le spalle a tutti noi e andarsene, borbottando qualcosa come ‘Non so neanche perché ho perso tempo, con una come te.’
Lo sguardo degli altri era allibito, più o meno come il mio. Dopo l’iniziale sorpresa dovuta alle sue parole mi riscossi e gli occhi cominciarono ad annebbiarsi da soli. Porca puttana, la stanchezza mi giocava bruttissimi scherzi. Non ero affatto una piagnucolona.
«Adesso vado a spaccargli il muso!» Disse Emmett iniziando a camminare verso l’ascensore. Lo fermai, tirandolo per un braccio e scossi la testa.
«Lasciagli pensare quello che vuole. Ho altro a cui pensare ora. Devo trovare la forza di affrontare Brian… non lo vedo da anni e so che mi manderà in pezzi. Posso contare su di voi?»
«Certo, ma… chi è di preciso questo Brian?»
Guardai verso l’ascensore, dove poco prima era sparito Edward, arrabbiato e furioso, convinto di aver capito tutto di me. Povero sciocco.
«Mio fratello.» Mormorai asciugando una delle lacrime che stava scendendo sul volto. Inspirai profondamente, cercando di calmarmi. «Domani cercherò di capire come affrontare Edward. Oggi ho bisogno di andare a casa e pulire fino a farmi uscire il sangue dalle mani. Siamo sempre d’accordo mercoledì per la solita pizza a casa mia?»
«Certo.»
Tornare a casa fu più difficile del previsto, il traffico era aumentato e la mia voglia di stare in mezzo alla strada era diminuito fino a ridursi a zero. Avevo solo voglia di distrarmi e non pensare a come la mia vita stava cambiando radicalmente. Mi era capitato più volte di aver voglia di chiamare Brian, di dirgli che era un cretino, ma che gli volevo bene. Non l’avevo mai fatto e tutte le volte che mi aveva chiamato avevo preferito mettere giù il telefono e ignorarlo, trattandolo male. Era più facile così, piuttosto che affrontare la triste realtà che lui non era con me, al mio fianco, tutti i giorni.
Una volta dentro casa il telefono prese a squillare, la musica era quella legata al numero di Edward e poi quello del suo ufficio e, ancora più tardi, quella del telefono di servizio. Aveva tentato più volte di chiamarmi ma non me la sentivo di discutere con lui al telefono né di sentirmi dire che, molto probabilmente, dovevo cercarmi un altro lavoro.
Scrissi un messaggio veloce, sperando che bastasse per farlo calmare almeno un po’.
 
Non mi sento bene, ho mal di testa e la nausea, credo di avere l’influenza. Per
esserci domani al lavoro ho bisogno di dormire e prendere delle medicine. Per qualsiasi cosa mandami una mail e vedrò cosa posso fare. Bella.

Dopo il mio messaggio aveva tentato di chiamarmi, questa volta solo dal telefono personale e io l’avevo stoicamente ignorato, mentre mi stendevo a letto e cercavo di chiudere gli occhi. Avevo bisogno di dormire davvero, di riposare fino a che gli incubi non sarebbero arrivati a rovinare tutto.
Lessi il messaggio che era appena arrivato dopo aver indossato una vecchia maglietta e un paio di short per dormire.

Mi sembrava che stessi egregiamente mentre parlavi al telefono con quel Brian. Ci sono forse delle ottime motivazioni di inadempienza e diligenza per licenziarti?

Non avevo neppure la forza di arrabbiarmi, quindi evitai di rispondergli. Ma il messaggio seguente mi fece ridere e non potei fare a meno di scrivergli a tono.

E comunque Brian è un nome da fighetta.

Brian è un nome come un altro. Un bel nome. Piantala di fare il cretino e lasciami dormire. Non c’è nessuna buona motivazione per licenziarmi, a parte essere andata a letto con il capo.

Chiusi gli occhi e mi addormentai con il telefono stretto tra le mani. Quando aprii gli occhi, sudata e agitata erano ormai le otto di sera. Avevo dormito quattro ore ma ero più stanca di prima, per colpa di quell’ultimo incubo.
Mi preparai una tazza di latte e tirai fuori i cereali prima di ricordarmi di controllare il telefono.

Per la politica aziendale avrei delle ottime motivazioni per licenziarti, ma credo che Rose potrebbe tagliarmi la testa per cui credo che attenderò un altro tuo passo falso. So che ne farai qualcuno prima o poi.

Scossi la testa, prendendo una cucchiaiata di cereali al cioccolato.

Per fortuna che eri quello che si fidava di me, tanto da darmi in mano la gestione di tutti i casi e gli appuntamenti quando non eri in ufficio. Mi chiedo cosa abbiamo fatto in queste settimane, ci siamo presi in giro?

Non mi aspettavo che rispondesse subito, ma il telefono trillò la sua canzoncina e lo ignorai, cliccando sulla cornetta rossa. Non volevo parlare con lui, avrebbe detto cose che mi avrebbero fatto soffrire, ancora una volta e mi avrebbe piantato dei paletti nel cuore così a fondo che sarebbe stato impossibile estirparli. Via messaggio era tutto più tollerabile.
Tentò di chiamarmi altre due volte e poi abbandonò i tentativi, rispondendomi con un messaggio.

Fifona. Sei così abile a mandare frecciatine via messaggio, ma non rispondi a quel cazzo di telefono neanche sotto tortura, vero?

No, perché mi uccideresti con le tue illazioni e con il carico da cento che sono certa ti sei ben conservato per questi momenti. I messaggi sono un terreno più sicuro per non esagerare con la cattiveria e la freddezza. Tu però ignori le mie domande.

Non rispondo perché conviene che sto zitto, o potresti davvero pensare di licenziarti e lasciarci nella merda ad un passo dai nostri obiettivi. Rose mi torturerebbe fino alla fine dei miei giorni.
Se pensavo che non potesse ferirmi con le sue parole, tramite messaggio, mi sbagliavo di grosso.

Ci vediamo domani Edward, buonanotte
Ignorai gli squilli del telefono e la canzoncina che si ripeteva in continuazione. Domenica non mi aveva chiamata per sapere come mai ero fuggita da casa sua, ma adesso mi rompeva tutta la sera per un’assurda scenata da classico stronzo bastardo.
Il rientro al lavoro è stato davvero proficuo per lui: ha ripreso tutta la cattiveria e l’indisponenza che aveva abbandonato per un po’.
Restai a guardare un film senza muovermi se non per accarezzare il pelo morbido di Poppy e poi andai a dormire, cercando di non fare brutti sogni. Mi rigirai nel letto fino a dopo le due e poi crollai, stanca morta. Gli incubi, per fortuna, arrivarono solo verso mattina e mi lasciarono spossata, come sempre.
Non potevo continuare così, ancora una volta. Dovevo cercare il modo di stancarmi il più possibile e di andare a dormire stanca morta, da non riuscire neppure a sognare.
Tornai al lavoro più stanca del giorno prima, con l’emicrania ancora forte e con lo stomaco in subbuglio. Potevo utilizzare tutte le scuse che volevo: l’influenza, il latte di ieri sera, un colpo di freddo; invece si leggeva a chiare lettere dai miei occhi che tutto ciò è colpa del poco sonno e della confusione che mi circonda. Le mie emozioni stanno ballando frenetiche di questi tempi e il mio corpo ne risente troppo.
Sulla scrivania trovai una ventina di post-it tutti di Angela, con i vari impegni che aveva provveduto a prendere per me con Edward. Ogni giorno della settimana attuale e quella futura aveva almeno un impegno con il mio capo e mi vennero i brividi nell’osservare l’appunto scritto con l’indelebile nero a caratteri grandi per oggi. Dovevamo andare in giro per lo stabile a controllare i dipendenti e i settori.
Dio, che giornata del cavolo!
Questo voleva dire che potevo abbandonare le mie amate ballerine, che indossavo quando stavo dietro la mia scrivania, e dovevo infilare i tacchi per percorrere tutti i piani dell’edificio accanto al capo. Edward avrebbe reso quelle ore tremende e stanca come ero avrei sicuramente ceduto o inciampato durante qualcuno dei suoi attacchi verbali.
Non potevo farcela.

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