martedì 16 aprile 2019

Capitolo Diciannove


Arrivai in ufficio in taxi, con la mente completamente da un’altra parta, decisa a buttarmi sul lavoro e a ignorare i pensieri su Edward e sua sorella. Avevo bisogno di pensare ad altro e magari di parlare di nuovo con la mia dottoressa. Gli incubi erano tornati più spaventosi di prima, non mi lasciavano respiro.
La scrivania era ancora disordinata da ieri, un milione di post-it gialli, verdi e rosa erano appoggiati in ogni dove. Tutti i messaggi che Angela prendeva per me.
Avrei speso metà della mattinata a sistemare quel casino e l’altra metà a organizzare da zero l’agenda di Edward.
Appoggiai il telefono sulla scrivania, i led lampeggiavano furiosi, ma ignorai la lucetta impegnandomi a sbrigare le prime cose. Chiesi alla segretaria di portarmi un caffè e iniziai a telefonare per disdire gli impegni di Edward. Fu difficile, se non quasi impossibile, non perdere la clientela e mantenere il rispetto degli investitori che dovevamo incontrare quel giorno. Assicurai che al prossimo incontro Edward ci sarebbe stato e porgevo infinite scuse per aver disdetto all’ultimo secondo.
Aggiornai l’agenda condivisa, ma quella cartacea era chiusa nella macchina di Edward.
Poi iniziai con i bigliettini di Angela. Erano una ventina. Il tempo era passato velocemente, senza accorgermene, presa da tutto quel lavoro. Angela arrivò trafelata e uscì quasi subito per altre riunioni. Emmett venne a chiedermi se pranzavamo insieme, risposi affermativamente distratta dal lavoro.
Non so come arrivai a mezzogiorno e mezzo senza esplodere e senza impazzire. Probabilmente non riuscivo a smettere di lavorare per paura di ritrovarmi a pensare.
I ragazzi mi aspettavano nell’atrio, mi stampai sul volto un bel sorriso, fintissimo, ma cercai di non mostrarmi turbata. Alice mi lanciò un’occhiataccia e feci segno con la mano di lasciare stare, ero sicura mi si leggessero in faccia il turbamento e la stanchezza.
«Non ho dormito bene stanotte, Poppy continuava ad abbaiare ad ogni macchina che passava.» Ero diventata bravissima a mentire e a nascondere qualsiasi cosa.
Seth ci raggiunse quando eravamo già al ristorante. Con loro non ebbi il tempo di pensare a Edward e sua sorella, né al fatto che a breve mio fratello sarebbe arrivato e l’avrei rivisto dopo anni che eravamo lontani. Non ebbi neanche il tempo di riflettere sull’incubo di quella notte, sulla paura che mi aveva lasciato e sull’angoscia infinita che sentivo ancora nelle vene.
Ordinai un’insalata greca e faticai a mangiarla. Mi sforzai a prendere qualche boccone di tanto in tanto solo per non indurre gli altri a farmi domande. Sorridevo, annuivo, partecipavo alla conversazione con piccole frasi, senza dire davvero nulla. Alice ogni tanto mi lanciava qualche sguardo di disapprovazione e curiosità. Pagai la mia parte di pranzo e li seguii fuori, ma prima di entrare mi bloccai. Edward teneva la mia valigetta e il computer in mano, fuori dalle porte dell’azienda. I ragazzi si fermarono e lo salutarono calorosamente, lo invitarono per un caffè ma lui scosse la testa. Mi lanciarono un’occhiata e poi Emmett si lasciò scappare l’invito a casa mia per quella sera, per una pizza in compagnia. Come se fosse normale. Edward mi guardò negli occhi e cercò di essere vago. Non capii se avesse paura che non accettassi la sua presenza, se pensasse non fosse adeguato o perché preferiva passare il suo tempo con Beth.
«Beh, vi faccio sapere se riesco a passare. Grazie dell’invito.» Lo salutarono e si incamminarono dentro, Alice mi tenne aperta la porta e io le feci segno di andare.
Solo quando i ragazzi salirono in ascensore si girò verso di me e mi porse le borse.
«Ti ho portato le borse che hai lasciato nella mia macchina.»
«Grazie.» Non sapevo che altro dire. Non mi aspettavo di trovarlo lì così presto, speravo di avere qualche giorno per preparare un discorso sull’argomento, e di avere il tempo di trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. Presi le borse dalle sue mani e così gli permisi di infilare le mani all’interno dei jeans, come se in quel modo fosse protetto. Era tornato a casa a cambiarsi, probabilmente aveva anche fatto una doccia perché profumava di fresco e i capelli sembravano ancora bagnati.
«Ti va… un caffè?» Presi un sospiro e mossi i piedi a disagio a quella proposta.
«Dovrei andare a lavorare. C’è molto da fare e poco tempo.» Lui annuì distogliendo lo sguardo da me. Soffiò fuori l’aria e si allontanò di un passo. Avevo sempre ammirato la sua capacità di nascondere le emozioni, in quel momento la barriera era quasi caduta completamente.
«Va bene. Ci vediamo domani.»
«Non passi stasera?» Mi affrettai a dire prima che si allontanasse. Ero una cretina! Solo l’altro giorno si era comportato come uno stronzo ed ora sembrava che per il mio cuore non fosse successo nulla. Stare con lui mi avrebbe fatto male, eppure in quei momenti mi sentivo così bene.
«Non mi sembra il caso.»
«Edward, se vuoi passare è solo una pizza.» Mi dispiaceva lasciarlo in disparte, nonostante tutto. Era incerto. Mi guardò e poi scosse la testa.
«Io non so come affrontare tutto questo. Ti ho chiesto di parlare, ti ho invitata a cena, per un caffè. Hai sempre detto di no. Non posso venire a casa tua stasera Bella, perché non sono abituato a gestire tutta questa enorme dose di sentimenti e sensazioni opprimenti. Non so come gestirlo.» La gola si seccò di botto e di punto in bianco non ebbi più parole. Una sincerità disarmante. Avevo appena strappato una confessione profonda all’uomo di ghiaccio. Mi sentivo… potente. A dir la verità, mi sentivo anche dispiaciuta per lui. Così mi lasciai scappare un invito, frettolosamente.
«Andiamo da Starbucks, ho voglia di un latte al caramello.» Mi sorrise appena e mi fece segno con la testa di seguirlo. Lasciai le mie cose a Robert, alla reception e seguii Edward lungo il marciapiede.
Camminammo fino alla caffetteria in silenzio, teneva le mani in tasca e mi lanciava qualche occhiata di tanto in tanto. Era la prima volta che uscivamo insieme fuori dal lavoro, e non eravamo neanche una coppia. Durante le settimane che avevamo passato insieme avevo immaginato più volte di passeggiare lungo i marciapiedi, mano nella mano, abbracciati, con dei sorrisi stampati sul volto e la serenità di vivere come una vera coppia. Non avevamo fatto in tempo, o forse i miei erano solo desideri inesaudibili. Vivere la nostra storia è complicato, per entrambi. Non so se ho fatto così bene ad andarmene da casa sua domenica mattina, senza una parola, senza chiarire i miei sentimenti; ma non credo di aver sbagliato così tanto a lasciarlo.
Prendemmo i nostri caffè e ci sedemmo in un tavolino appartato, nascosto dalla vista di ogni passante e da orecchie indiscrete.
Sapevo che dovevo dire qualcosa, ma non mi veniva in mente nulla di intelligente da dire in quel momento; ero ancora troppo scossa dal giorno precendete per ragionare con distacco. Neanche lui riuscì a dire nulla, sorseggiava il suo cappuccino amaro fissando il legno del tavolino.
«Lunedì mi sono comportato come uno stronzo.»
Esordì a metà della sua tazza.
«Ero sconvolto, arrabbiato e preoccupato.» Non mi guardava negli occhi, e pensai a quanto dovesse essere difficile per lui ammettere tutto ciò. «Domenica sono andato a trovare Beth, abbiamo litigato perché voleva che ti chiamassi, io mi sono ostinato a dirle di no. Mi ha cacciato dalla sua stanza. Non era mai successo, in tutti questi anni… Non era mai capitato. Sono rimasto tutta la giornata a casa a lavorare e a sentirmi un inutile bastardo per come erano andate le cose. Così lunedì mattina, prima di venire al lavoro, sono passato a portarle la colazione, sperando che mi perdonasse per il giorno prima, invece mi ha urlato contro di starle lontana. Ero furioso. Non capivo perché per colpa tua dovessimo litigare io e lei. Sono arrivato in ufficio e ti ho trattato in modo indegno. Ma non era colpa tua. Sono sempre stato bravo a separare le cose quando necessitavano: lavoro, vita privata e via dicendo. Ma questa volta non sono stato in grado di distinguere la frustrazione per quello che era successo con Beth e la rabbia che provavo verso noi due.
»
Restai in silenzio, mentre raccontava la sua parte della storia e, credo, mentre tentava di chiedermi scusa. Non sapevo dove ci potesse portare quella conversazione, né cosa sperava di ottenere… Io ero certa di cosa non volevo ottenere. Lui. Ero fottutamente innamorata del mio capo e della persona più complicata sulla faccia della terra, dopo me stessa. Per quanto nella vita avessi combattuto duramente per ottenere tutto ciò che volevo, in quel momento mi trovavo ad un punto in cui era impossibile continuare a lottare, perché sapevo che sarei stata destinata a fallire.
«Non chiedermi perché ieri sera ti ho voluta lì, ho cercato di capirlo ma…» Sospirò e bevve un sorso di caffè, chiudendo gli occhi per il tempo di un battito di ciglia. «So solo che volevo che tu fossi lì, ero certo che non ce l’avrei fatta a trovarla di nuovo in quelle condizioni, da solo e arrabbiato com’ero. Ti chiedo scusa se ti sei sentita costretta e...»
«Non devi.» Mi uscì di getto e il suo sguardo si fissò immediatamente su di me. «Non devi chiedermi scusa per ieri. Per avermi voluta lì, intendo.» Riuscì a concludere la frase nonostante il nodo in gola che sentivo formarsi. «Hai decisamente bisogno di avere qualcuno attorno, al tuo fianco, che ti aiuti a superare e sopportare tutto ciò che capita nella tua vita Edward.» Ammisi guardandolo negli occhi, dopo aver preso un profondo respiro. «Ti dirò di più, tu meriti qualcuno. Fuori sei un pezzo di ghiaccio e vuoi mostrarti un muro indistruttibile, ma questa apparenza si sbriciola quando ti rendi conto di non riuscire a gestire il peso sulle tue spalle.» Sospirai e finì il caffè nella tazza. «Io, però, non posso essere quella persona, Edward; credimi lo vorrei con tutto il cuore, non puoi immaginare quanto, ma non posso. Abbiamo passato delle serate fantastiche, dei momenti veramente belli che non voglio dimenticare, ma…Ho un milione di casini nella mia vita, al momento, non posso proprio essere la roccia di nessuno, mi sgretolerei subito. Non so se domenica mattina sia stato un bene che me ne sia andata dal tuo appartamento, probabilmente se tornassi indietro, ora come ora, non mi comporterei allo stesso modo. Ma so che adesso, oggi, è un bene che la nostra storia o qualsiasi cosa sia stata, sia finita.» Cercai di guardarlo negli occhi, con quel poco di coraggio che mi restava, ma era difficile. I suoi occhi caramello erano puntati ad un dettaglio insignificante della sua tazza tra le mani. Così presi l’ultimo brandello di coraggio che avevo e terminai il mio discorso sperando di fare la cosa più giusta per i miei incubi, per me stessa e per lui. «Vorrei andarmene da qui sapendo di essere stata sincera con te, ma sai bene che non è così fino in fondo. Neppure tu sei stato sincero con me, né lo sei fino in fondo adesso. Ci nascondiamo a vicenda scheletri che non vogliamo portarci dietro. E queste sono le cose che mi fanno paura e che non mi permettono di starti vicino. Vorrei poterti dire cosa provo per te.» Ammisi. In quel momento, come cerbiatti nella notte, i suoi occhi si alzarono di colpo nei miei. «Se lo facessi, se mi lasciassi andare, se abbattessi la corazza che vedi ora, però, non riuscirei ad andarmene. Ne sono sicura. Rischieremmo di creare un casino dopo l’altro, e di farci del male. Senza rancore Edward, possiamo restare amici, puoi contare su me e sui ragazzi per qualsiasi cosa tu voglia. Non voglio che ti senti solo né che pensi di dover affrontare tutto da solo. Noi ci siamo, io ci sono.» Mi alzai dalla panca sulla quale ero seduta e mi avvicinai a lui, tanto che fu costretto a spostare il mento verso l’alto per guardarmi. «Mi dispiace, ma più di questo non posso dare ora.» Mi piegai a baciarlo sulla guancia e mi soffermai un po’ lì, inspirando il suo profumo a pieni polmoni, salutandolo e dicendogli un addio personale nel mio cuore. «Ci vediamo in ufficio. Saluta Beth da parte mia.»
Uscii dalla caffetteria e percorsi a grandi passi il tragitto verso l’ufficio. Ogni passo fu pesante e faticoso, mettere un punto così forte alla nostra storia significava tirarsi indietro, ma sapevo di non essere capace di fare di più. Dovevo pensare a me stessa, per una volta.
Attraversai la hall piena di pensieri e salii nel mio ufficio con un carico sulle spalle enorme. Mi sentivo afflitta e sconsolata, e la cosa che mi preoccupava di più è che stavo così per una storia durata un paio di settimane, niente più.
Cercai di concentrarmi sul lavoro, ignorando il telefono sulla scrivania, che mi attirava nella sua trappola. Se fossi stata più forte sarei rimasta seduta in quella caffetteria, avrei ascoltato tutto ciò che Edward aveva da dire e mi sarei proposta di stare al suo fianco, senza andarmene perché potevo essere io la persona giusta per lui. Invece forte non ero. Mi sono sempre vantata di essere invincibile dopo la morte di mio padre, ho affrontato tutto da sola, senza mia madre e senza mio fratello, convinta che niente si sarebbe più intromesso nella mia strada per la felicità. Ed eccomi qui, invece, ad affondare senza salvagente e con un dolore immenso nel cuore.
Dopo le prime giornate di assestamento le cose in ufficio funzionano alla grande. Io e Angela eravamo sempre più prese da tutta la gestione e le scartoffie varie, Rose era tornata per qualche ora in ufficio e da quel momento le riunioni furono il nostro pane quotidiano. I due capi avevano intenzione di rivoluzionare l’assetto interno dell’azienda, dopo le festività natalizie, questo significava premi, promozioni ma anche licenziamenti. Il clima, piano per piano, era diventato teso e frenetico. Tutti si davano gran da fare per mostrarsi indispensabili e produttivi, anche se si trattava solo di fare fotocopie e caffè. Alice alla reception era tranquilla, così come Angela ed Emmett. Loro hanno sempre svolto un lavoro impeccabile e non sono mai stati ripresi per qualcosa di grave, erano certi della loro professionalità e dedizione all’etica lavorativa come pretendevano i capi. Seth non si preoccupava minimamente di quello che poteva succedere, lavorava come sempre, credente nella filosofia dei precedenti; non vale la pena mostrarsi operosi ora se prima non si è fatto granché. Ne abbiamo discusso numerose volte durante le pause pranzo e la serenità con la quale vivono questo periodo mi rendeva tranquilla. Poi c’ero io… che affogavo in un mare di confusione e sensi di colpa, frustrazione sessuale e terrore.
Natale era alle porte, Brian sarebbe arrivato a giorni e l’idea di condividere il mio appartamento e la mia vita con lui, seppur per qualche settimana, mi rendeva particolarmente eccitata e ansiosa. Con questo dibattito interiore ogni giorno mi recavo al lavoro, dove un’angoscia e un’agitazione senza precedenti si agitavano dentro di me da quanto arrivavo a quando andavo via. Edward non era più mancato in ufficio dalla nostra chiacchierata. Le cose tra noi sembravano andare bene, non ha più parlato di noi, né ha fatto allusioni di alcun genere. La sua capacità di separare lavoro e vita privata è uscita in tutta la sua gloria. Meglio così, anche se mi chiedevo, di tanto in tanto… si era scordato di noi o era semplicemente un grande attore?
Per me, comunque, era impossibile dimenticare. Restava ancora vivo, sotto la pelle.
Per fortuna l’azienda chiudeva per due settimane, dandomi la possibilità di staccare e allontanare i pensieri da Edward per un po’.

Emmett che spalanca la porta dell’ufficio mi distrae dai miei pensieri.
«Bella, domani Edward ci ha invitati per la solita pizza settimanale a casa sua. Ha detto di chiederlo anche a te. Ci vieni?»
Guardo il calendario, il nome di Brian è scritto ed evidenziato proprio per il giorno di oggi. Domani sarà venerdì, vuol dire che la serata pizza, solitamente, finisce in qualche bottiglia di birra in più e un rientro a casa più tardi del normale. Questo significa anche che non potrò partecipare, perché mio fratello dovrebbe arrivare in serata all’aeroporto e sento, dentro di me, di dover stare con lui e recuperare il tempo perso.
«Grazie, ma per domani passo.»
«Bella…» So cosa sta per dire, teme che lo faccia per Edward.
«Stasera arriva Brian, vorrei passare del tempo con lui.»
«Giusto, scusa non ci avevo pensato! Riferisco. A più tardi!» Sono solo le tre del pomeriggio e il tempo sembra non passare più. Arrivare al week-end sembra una tortura quando la confusione non ti fa più capire nulla.
Quando sono le sei e mezzo il cellulare sopra la scrivania mi interrompe bruscamente dal lavoro che stavo terminando. Non so come avevo trovato la concentrazione necessaria per finire un progetto che avevamo acquisito un paio di settimane fa. Un numero sconosciuto mi sta chiamando e tentenno nel risponde, spero non sia qualcuno che vuole vendermi qualcosa o, peggio ancora, qualcuno che tenta di farmi scherzi telefonici per niente divertenti. Con un’occhiataccia lo afferro e me lo porto all’orecchio.
«Pronto?» Dico incerta.
«Bella, sono Brian. Sono arrivato all’aeroporto.» Non potendo sapere l’effettivo orario del volo mi aveva detto che avrebbe telefonato una volta arrivato a New York. Io, dal canto mio, mi ero proposta come autista ma non c’è stato verso di farlo cedere.
«Vuoi che venga a prenderti? Ci vuole un’oretta senza traffico se parto subito.» Ma prevedevo che il traffico dell’ora di punta mi avrebbe fatto impiegare sicuramente un’ora aggiuntiva per raggiungere il terminal.
«No, sono già su un taxi. Volevo solo… Ti spiace se ti raggiungo in ufficio? Non so dove andare.»
«Fatti portare alla CullenHale, ti aspetterò nella hall. A più tardi.»
E’ inutile tentare di spiegare quanto è difficile affrontare la discesa fino nella hall, mezzora più tardi, la stessa che faccio ogni sera finito il turno. Negli ultimi trenta minuti non ho fatto altro che riordinare la scrivania, passando di mano in mano lo stesso oggetto o la stessa carta almeno una ventina di volte. In ascensore il tempo sembra essersi congelato, la borsa sulla spalla sembra pesare cinquanta chili e le scarpe paiono fatte di piombo. Il respiro si fa affannato e quando esco dalla scatola di metallo e avanzo, traballante, attraverso l’atrio addobbato per Natale sono così sconnessa da non capire dove mi trovo.
Penso di non essere mai stata agitata così in vita mia.
Mi stringo la sciarpa attorno al collo e infilo le mani in tasca, pronta per affrontare il gelo serale di New York che si prepara alla prima nevicata delle feste.
Ancora scombussolata esco dalla porta a vetri cercando di guardarmi attorno, ma senza vedere realmente nulla, infatti vado a sbattere contro qualcosa e quando, con le mie gambe traballanti, rischio di cadere qualcuno mi afferra prima che il mio sederone tocchi terra.
«Bella!» Mi riscuoto solo perché la voce di Edward è spaventata. «Ti ho fatto male?» Mi guarda con occhi sgranati ed io ci metto davvero un tempo infinito a rendermi conto che sono andata a sbattere contro di lui.
«No. Scusami. Ero distratta.»
«Me ne sono accorto. Sicura di star bene?»
«Sì.» Mormoro e sospiro. «Sì.» Affermo con più convinzione, ancora con le mani che tremano. «Mi dispiace esserti venuta addosso.»
«A che pensavi?»
«Sinceramente… a niente. Sono solo molto stanca.» Speravo di avere il tempo di liquidarlo prima che Brian arrivasse. Non volevo che si incontrassero così, né che ci fosse qualcuno quando l’avrei rivisto dopo tutto questo tempo.
«Ho sentito dire da Angela che hai avuto una giornata impegnativa.»
«Sì, il telefono non ha mai smesso di squillare. Irina ha ben pensato di deviarmi tutte le telefonate che erano indirizzate a te, anche se poteva tranquillamente declinare tutti gli inviti a cene di Natale o di beneficenza da sola.»
«Non so che fare con lei!» Si passa la mano tra i capelli e devo trattenere un sospiro sognante mentre lo osservo. E’ qualcosa che fa senza rendersene conto, ma è talmente sexy che fa tremare le ginocchia a chiunque si soffermi a guardarlo. «Stai andando a casa?»
«Sì, ti dispiace? Hai bisogno di qualcosa?» Ti prego, dì di no. Dì di no.
«No, volevo offrirti un caffè, se non ti dispiace.»
«Veramente…» Sto cercando una scusa quando un taxi giallo si ferma proprio dietro Edward e una figura alta e muscolosa ne scende in velocità. Le mani iniziano a sudarmi e a tremare e la tensione che sentivo in tutto il corpo già prima, arriva per sino a indurirmi le gambe, come se fossero fatte di pietra. L’uomo paga il tassista che gli offre il borsone e poi si avvicina a noi a grandi passi. Lui sorride, con l’angolo della bocca che si alza appena percettibilmente, negli occhi un timore e una gioia che fanno a pugni finendo per inumidirli e nel volto tutta la durezza e l’esperienza di chi ha visto il peggio del mondo. Io sono ancora qui, ferma immobile senza il controllo che amo esercitare su me stessa e la mia vita, sono in balia di emozioni che non provavo da tempo: paura, rimpianti, ricordi, malinconia e una felicità che non pensavo di provare e che mi scombussola. La tuta mimetica e gli scarponi che indossa, coordinati da un cappello storto sulla testa rasata, lo fanno sembrare più grosso di quello che ricordavo; o forse è davvero cresciuto fisicamente molto di più dall’ultima volta che l’ho visto.
Percepisco Edward che si irrigidisce al mio fianco quando la figura imponente si ferma proprio davanti a me e lascia cadere il borsone al suo fianco con un tonfo rumoroso. Gli occhi gli luccicano più di prima e, temo, sia la stessa espressione che si riflette nel mio sguardo. Non so cosa possa apparire da fuori una scena di questo tipo, ho visto milioni di film e non credevo che potesse mai succedere anche a me. Invece sono qui, in questo momento, senza voce e con la testa che gira per il fracasso che fanno le sensazioni che scorrono dentro di me.
«Bella.» Sussurra con voce arrochita.
«Brian.» Riesco a dire dopo qualche secondo a bassa voce.
Non so quanto tempo passa da quando pronunciamo i nostri nomi, non so se il freddo che sento è reale o è solo l’angoscia che scorre nelle vene e, a dir di più, non mi rendo neppure conto se ci sono persone che passano attorno a noi. Ho dimenticato dove sono, ho perso la consapevolezza di ciò che mi circonda. Sto solo ferma, con le gambe immobili e tremante nel resto del corpo. Ad un tratto la situazione di stallo viene rotta da Brian che brucia la distanza tra noi con due passi e mi prende tra le braccia, sollevandomi senza sforzo.
«Piccola quanto mi sei mancata!» Lascio cadere la borsa ancora tra le mani e stringo le mie braccia attorno al suo collo, appoggiando la testa sulla sua spalla e respirando il suo profumo. Sa di terra, fumo e dopobarba.
Non so cosa dire né dove potrei trovare le parole giuste per questo momento. Mi godo solo il calore del suo abbraccio e la forza con la quale mi stringe, senza nonostante farmi male, dopo tutto questo tempo. Sento le sue mani tra i miei capelli, il suo naso che inspira il mio profumo e il suo cuore che batte all’impazzata. Lo stringo a mia volta, stringendogli i muscoli delle spalle e bagnandoli la divisa con le mie lacrime. Troppo tempo. Possono succedersi eventi, parole, litigi, ma non potrò mai dimenticare la sensazione di abbracciare mio fratello e non potrò mai rinunciare a lui; chi volevo prendere in giro?!
In questo momento sembra che ogni cosa sia successa tra noi in passato sia evaporata, si è dissolta nell’aria nel momento in cui mi ha preso tra le sue braccia e mi ha stretto a sé.
Mi mette a terra, senza allontanarsi troppo, dopo un tempo infinito e sospirando mi asciuga una lacrima che non sapevo stesse scendendo dai miei occhi.
«Sono qui, piccola. Non piangere.»
La gola punge e tremo, sicuramente non per il freddo. Vorrei dire tante cose, lo so, ma la mia mente è un vortice confusionario di parole, immagini e ricordi. Sto per dirgli che mi è mancato e che non vorrei dovesse ripartire alla fine di questa vacanza ma un singhiozzo fa sparire tutte le parole che sentivo dentro.
Qualcuno, dietro di me si schiarisce la voce e solo in questo momento, dopo tutto quel tempo, mi rendo conto che Edward è qui e ha assistito a tutto.
Mi volto e sul suo viso l’espressione dura che usa in ufficio ha sostituito la serenità di qualche attimo prima. Mi porge la valigetta, che probabilmente era caduta quando gli sono andata addosso, e si volta per andarsene. Non so come, né cosa mi da la forza per muovermi ma lo fermo, prendendogli un polso e tirandolo appena. Mi devo avvicinare di un passo, quando si gira, per prendere fiato e riuscire a parlare.
«Non è come sembra.» Mormoro. E il premio per la frase dell’anno più stupida va a… Bella Swan!
Un coro di applausi si intromette nella confusione della mia testa facendomi sentire ancora più inadeguata.
«Non devi giustificarti con me.» Cerca di tirare via il polso dalle mie mani ma stringo più forte, piantandogli le unghie sulla pelle e scuotendo la testa.
«Non mi sto giustificando, ti sto spiegando.»
«C’è differenza?» Inarca il sopracciglio guardandomi con ironia.
«Sì.» Abbasso ancora la voce e mi avvicino di più, i nostri corpi quasi si toccano. Non siamo mai stati così vicini dopo l’ultima chiacchierata in caffetteria e non c’è stato nessun contatto neanche in ufficio, dove abbiamo cercato di ignorare rispettivamente i nostri corpi. «So che non mi conosci bene e che non ti ho dato modo di fidarti di me, ma non sono quella che pensi. Credimi, ti prego.»
Le mie parole ci stupiscono entrambi. Non è sicuramente il tono di chi ci ha messo una pietra sopra.
«Come ti ho detto poco fa, non devi giustificarti.»
«Edward, ti prego. Vorrei spiegarti tutto ma in questo momento… non posso, non ci riesco.»
«Già, in questo momento c’è Brian.» Guarda dietro le mie spalle, l’uomo appena arrivato che se ne sta fermo in mezzo al marciapiede e tenta di non ascoltare la nostra conversazione. I nostri occhi si incrociano e, silenziosamente, lo prego di fare qualcosa, qualsiasi cosa per tirarmi fuori da questo inghippo in cui sono andata a finire. Anni ed anni di lontananza non hanno scalfito la nostra intesa per fortuna. Si avvicina di qualche passo e sento il braccio di Edward scivolare dalla mia presa, sta andando via.
«Buonasera.» Brian interrompe il silenzio, e so che Edward adesso non può andarsene. «Mi scuso se vi ho interrotti sia prima che ora, è tanto che non vedo Bella.» Brian, così non mi aiuti, cazzo! Mi volto verso Edward che indossa la maschera dell’ironia senza mostrare segni di disagio. E’ tornato l’uomo di ghiaccio, proprio ora che non avevo bisogno di lui!
«Edward…» Lo chiamo, pronta a presentarli, ma Brian mi precede, allungando il braccio e la mano verso l’altro uomo al mio fianco.
«Brian Swan. Lei è… » Lo stupore prende posto sul volto di Edward, ora a disagio e imbarazzato. Ringrazio per il tempismo di mio fratello e per la calma con la quale è stata gestita la situazione, non ero pronta a scenate e urla.
«Edward Cullen, il capo di Isabella.» Si stringono la mano e sospiro.
«E’ un piacere conoscerla.» Mio fratello mi lancia uno sguardo divertito e, conoscendolo, so che dovrò spiegargli cosa succede tra me e il mio capo appena saliamo in macchina. «E’ davvero bello sapere che mia sorella lavora con una persona come lei, Sig. Cullen, così professionale e attento alla sicurezza delle sue dipendenti!» La battuta di Brian fa arrossire sia me che Edward e devo intervenire prima che dica qualcosa di peggio.
«Brian, per favore! Sei così fuori luogo! Andiamo a casa!»
Scoppia a ridere scompigliandomi i capelli.
«Sei sempre la solita bambina che tenta di difendermi dalle brutte figure! Non è cambiato nulla in questi anni.»
«Se non che non sono più una bambina e che non ci vediamo da circa sei anni?»
Colpito e affondato dal tono di rimprovero che ho usato il suo sguardo si fa torbido per qualche secondo, per poi rivolgermi il suo sorrisetto strafottente. Edward si schiarisce la voce interrompendo la nostra discussione, di nuovo.
«E’ un piacere averla conosciuta, Sig, Swan.»
«Sig. Swan era mio padre. Mi può chiamare solo Brian, o in alternativa, Sergente Maggiore Swan.» A lui sembra divertente, a Edward un po’ meno.
«Brian va benissimo.» Mi intrometto io. «Ora penso proprio che sia il momento di andare a casa.»
«Come vuoi piccola, se mi dici dov’è la macchina ti aspetto lì.»
«E’ nel parcheggio sotterraneo, ti devo accompagnare io. Solo un secondo.» Brian afferra il borsone e si allontana da noi di qualche metro, guardandosi attorno e cogliendo tutti i dettagli della città che si possono vedere da quel punto.
«Mi dispiace… » Inizia Edward passandosi una mano tra i capelli. Sorrido scuotendo la testa e guardandolo più serena rispetto a prima.
«Non ti scusare, la situazione era fraintendibile.»
«Non sono comunque fatti miei.» Dice guardandomi negli occhi. Il suo sguardo mi toglie il respiro. Lo so, che non sono affari suoi, ma so anche che non ci ha messo una pietra sopra come non l’ho fatto io, ora me ne rendo conto. «E’ per lui che domani sera non vieni alla solita pizza?»
«Già, non ci vediamo da tanto tempo e credo sia giusto passare del tempo con lui.»
«Certo, ma… ecco, se ti va di venire è invitato anche lui. Per me non ci sono problemi. Casa mia è grande, lo sai.» L’allusione mi fa tremare le ginocchia per un istante.
«Glielo propongo e vediamo cosa ne pensa, ti faccio sapere domani, se non è un problema.»
«No, figurati.»
L'imbarazzo ci avvolge in un tepore particolare.
«E’ il caso che vada.»
«Sì, anche io. Mi dispiace per tutta questa scenata, non è da me.»
«Edward, non ti preoc-»
«Mi preoccupo, invece. Non voglio che si crei dell’imbarazzo in ufficio, come adesso. Eravamo andati così bene fino ad oggi.»
«Nessun imbarazzo. Dimentichiamo l’episodio, ci stai?»
Mi guarda e poi sorride appena, mozzandomi il respiro.
«Affare fatto. Ora vado, ci vediamo domani in ufficio. Buona serata Bella.»
«Anche a te.» Raggiungo Brian con qualche passo veloce. «Pronto ad andare?» Lo accompagno al parcheggio coperto e gli indico la macchina. Quando stiamo per attraversare la sbarra del parcheggio si schiarisce la voce.
«Quindi il tuo capo…»
«Non cominciare!»
«Oh no signorina, non usare con me questo tono scocciato. Mi devi aggiornare su un po’ di cose.»
«Come se avessi il diritto di sapere!» Mi lascio andare questo commento sarcastico e mi fermo subito. Lui invece scuote la testa e continua a camminare, non sapendo neanche dove ho parcheggiato. La scuola militare gli ha insegnato a essere imperturbabile.
«Scusa, io-» Ma Brian scuote la testa e, individuata la mia macchina senza che gli indicassi quale fosse si porta al posto passeggero. Salgo in macchina in silenzio e, sempre senza dire niente mi dirigo verso casa.
Ad un certo punto, fermi ad un semaforo Brian si volta verso di me e si sporge per darmi un bacio.
«Grazie per l’opportunità che mi hai dato, anche se so quanto ti è costato. Pensavo fosse più semplice, sinceramente. Mi aspettavo di dover abbattere qualche oscuro rancore, ma non mi sono mai reso conto di quanto ti ho ferito realmente andandomene. Perciò grazie davvero Bella, per avermi dato l’opportunità di vederti e abbracciarti dopo tutti questi anni, ma credo che stare con te non sia la cosa giusta da fare. Ti farò uno squillo in questi giorni. Ti voglio bene.» Scende dall’auto quando il semaforo scatta verde e si affretta a recuperare il borsone dal sedile posteriore. Non posso fermarlo, non riesco a dire una parola perché le macchine dietro di me iniziano a suonare imperterrite il clacson.
Non so come faccio a tornare a casa ma sono senza parole. Brian è sceso dalla macchina salutandomi e sparendo dalla mia visuale prima che potessi anche solo dire una parola.
Non so dove sia andato, né se davvero mi chiamerà come ha detto, so solo che in questa casa adesso mi sento vuota. Non ho mai portato nessuno qui davvero e per la prima volta sentivo di voler condividere il mio spazio con qualcuno. Mio fratello, invece, è sparito prima ancora che avessi la possibilità di scusarmi per l’astio con cui l’ho trattato.
Sei anni… Sei lunghissimi anni in cui è stato lontano e in cui non ci siamo parlati. Avevo finalmente deciso di mettere da parte il rancore verso le sue scelte e accoglierlo come meritava, invece mi sono fatta trasportare dalla stronza che è in me.
Non so neanche dove rintracciarlo, porca puttana.
Cosa faccio adesso?
Per una volta ero così felice… felice di riaverlo a casa sano e salvo, di poter passare un Natale con un pezzo della mia famiglia, di potermi dedicare a un pranzo di Natale con la felicità di condividerlo con qualcuno. Sono stata davvero una cretina.
E sono ancora più stupida perché adesso, ferita e delusa da me stessa sto scendendo nuovamente in macchina, per andare a cercarlo.
Non può essere scomparso nel nulla, anche se non so dove iniziare a cercarlo. Ripercorro la strada al contrario, arrivo fino davanti alla CullenHale e mi fermo. L’auto di Edward è ancora qui, nel parcheggio di fronte allo stabile, potrei chiedere il suo aiuto, ma fondamentalmente non c’è molto che possa fare. Così mi decido a chiamare qualcuno che potrebbe aiutarmi.
«Pronto?»
«Robert, sono Bella, Bella Swan. Scusa se ti disturbo ma…» Non so neanche io come continuare.
«Non disturbi mai, Bella. Ricordatelo sempre. Dimmi tutto.»
«Ho perso mio fratello.» Le parole mi escono di getto, affrettate e agitate.
«Cosa?»
«Brian è tornato a New York questo pomeriggio. Non l’ho trattato bene e così… se n’è andato. Non so dove cercarlo, è sceso dalla macchina ad un semaforo e PUF! Sparito. Mi chiedevo se fosse possibile avere il tuo aiuto, per trovarlo.»
«Bella…»
«Lo so, è impossibile trovare un militare qualunque a New York, ma ho davvero bisogno che interroghi tutte le telecamere ad ogni angolo della città e che mi aiuti a trovarlo. Non so dove sia e devo riuscire almeno a scusarmi per il mio comportamento.»
«Bella…»
«Ti prego Robert, aiutami. Non so a chi chiedere e sto girando in macchina da un’ora.»
«Stai perlustrando la città?» Sento nel suo tono una certa simpatia.
«Non so cosa fare, dove cercarlo. Sono disperata.»
Il silenzio dall’altra parte del telefono mi angoscia, spero che voglia aiutarmi perché non saprei davvero cosa fare, aspettare che Brian mi richiami, nei prossimi giorni, è fuori discussione. Sono una cretina e devo scusarmi. Non voglio che pensi di non essere accettato e che io non volessi stare con lui. E’ difficile, ma cosa non lo è nella vita?
«E’ qui. E’ venuto a casa mia Bella. Puoi passare quando vuoi.»
Le sue parole mi tolgono un peso dal cuore che non pensavo di poter tenere più a lungo. Sospiro e mi segno l’indirizzo, prima di avviare il motore della macchina.
«Grazie, arrivo subito.»
La comunicazione si interrompe. Lancio un’altra occhiata all’ingresso dello stabile dove lavoro e vedo Edward uscire dalle porte a vetri e dirigersi alla macchina. Il cappotto che indossa si adagia sul suo corpo perfettamente, la valigetta oscilla a ritmo con i suoi passi cadenzati e le gambe lunghe coprono in un istante la distanza che separa la porta dalla macchina. Sul suo volto, però, c’è quell’alone di tristezza che è difficile da spazzare via e che mi ricorda quanto sia difficile stare con lui e non amarlo profondamente. Sospiro e mi costringo a guardarlo per l’ultima volta. I nostri occhi si incrociano, quando lui alza lo sguardo verso di me, nonostante il buio. Apre la bocca confuso e poi scuote la testa per schiarirsi le idee, mi osserva ancora una volta e, stupendomi, chiude gli occhi salendo in macchina. Non mi guarda più, mette in moto e se ne va, senza farmi nessun cenno di saluto. Lo imito percorrendo gli isolati che mi separano dalla casa di Robert con lentezza, colpa del traffico serale e interrogandomi sul comportamento strano di Edward. So che mi aveva riconosciuta, per un attimo un lampo di speranza si era affacciato nei suoi occhi e lui l’aveva scacciato, chiudendosi dentro la macchina e andando via.
Non so perché ma ha reso ancora più definitiva la nostra rottura.
Robert sta in un palazzo simile al mio, al quattordicesimo piano, cercare parcheggio è un po’ più facile, rispetto al quartiere di Edward, per fortuna, e non devo girare intorno all’isolato per quattro volte.
Una volta chiusa la macchina raggiungere la porta dell’appartamento è una sciocchezza, trovare il coraggio per suonare al campanello è più difficile. Sono qui, ma se Brian non vuole vedermi? Cosa gli dirò?
Non vorrei stazionare sopra lo zerbino per troppo tempo, ma non trovo il coraggio per affrontare questa sfida. Mi servirebbe un drink adesso, una dose di coraggio liquido per superare le mie paure. Alzo la mano per suonare il campanello ma mi fermo, riabbassandola, mi mordo il labbro costringendomi a suonare quel maledetto bottoncino, ma non ce la faccio. Do le spalle alla porta sospirando. Se Brian se n’è andato non voleva stare con me e non posso di certo convincerlo a tornare a casa mia dopo tutto questo casino. Gli lascerò un biglietto tramite il portiere e mi auguro che mi chiami lui, prima o poi.
L’ascensore ci mette un po’ ad arrivare quando lo chiamo e non mi muovo quando sento una porta aprirsi sul pianerottolo.
«Non pensavo di avere una sorella così fifona.» Lascio andare un forte sospiro e chiudo gli occhi un attimo, prima di girarmi ed affrontarlo. Indossa un pantalone della tuta grigio e una maglia nera a maniche lunghe aderente, sta appoggiato con la spalla allo stipite della porta e mi osserva con le braccia incrociate.
«Sapevi che ero qui?»
«Sì. Robert non è riuscito a stare zitto e a mantenere il segreto. Si è fatto beccare non appena ha chiuso la telefonata con te.»
«Perché non hai aperto subito, allora?»
«Volevo vedere fino a dove saresti arrivata con questa nuova spavalderia che ti contraddistingue.»
«Non molto lontano, visto che me ne stavo andando.»
«Già, perché?» Alzo le spalle e sposto lo sguardo all’appartamento che appare dietro di lui. «Robert e sua moglie sono in cucina. Stanno finendo di preparare la cena. Ci aspettano.»
«Oh, io… non posso restare.»
«Davvero?»
«Già.»
«Allora cosa sei venuta a fare qui?»
«Volevo chiederti scusa per il mio comportamento.»
«Vai avanti.»
Lo guardo in faccia e mi accorgo che la sua espressione non è mutata di una virgola. E’ sempre freddo e distante, neanche quando mi ha parlato in macchina, prima di scomparire, si è lasciato andare.
Faccio due passi verso di lui e ci separa ormai solo il tappeto.
«Mi dispiace Brian, davvero. Devi cercare di capire che è difficile per me averti qui e… sto cercando di aggiustare il tiro. Non ti vedo da così tanto tempo e…» Non riesco più a continuare perché il nodo alla gola mi ha fatto dimenticare le parole che volevo dirgli e gli occhi hanno perso la loro battaglia con le lacrime. Mi sento avvolgere in un abbraccio caldo e rassicurante in un secondo e, tenendo ancora gli occhi chiusi, inspiro il profumo di terra e fumo di mio fratello. Sì, mi è mancato da morire.
«Non piangere per favore, non lo sopporto.»
«Oh, Brian. Non ce la faccio.»
«Lo so, piccola. Lo so. E’ difficile anche per me… tu non hai idea di quanto sia stato maledettamente difficile in questi anni.»
Tiro su col naso mentre ancora resto abbracciata a lui, sul freddo pianerottolo del palazzo in cui abita Robert, mentre due persone ci attendono per cena.
«Ti prego, perdonami.» Mormoro sul petto di Brian. «Ti voglio a casa con me, per favore.»
Lo sento trattenere il fiato e stringermi più forte, fino quasi a farmi male. Le lacrime scorrono ancora lungo le mie guance.
«Ti prego!» Rincaro la dose stringendolo forte e aggrappandomi alla sua maglia. Mi bacia la testa e mi stringe ancora più forte.
«Verrò a casa con te.» Un sospiro tra i singhiozzi lascia le mie labbra e vorrei dirgli e chiedergli troppe cose per un pianerottolo anonimo e due persone che ci attendono dentro casa. Mi limito a crogiolarmi nel tepore del suo abbraccio e a lasciarmi accarezzare i capelli come quando ero bambina e immaginavo che quel gesto tenesse lontani i brutti sogni.
«Vieni, Robert ci aspetta. Ho provato a dirgli che probabilmente volevi andare a casa ma ha insistito molto.»
«Non è un problema, mi ha aiutato a ritrovarti, è il minimo che possa fare cenare con la sua famiglia.»
«Ti sei tenuta in contatto anche con altri, oltre a Robert?»
«No.» Mormoro appena dentro la porta. «Veramente Robert l’ho rivisto un paio di mesi fa, quando un amico mi ha trovata senza patente e mi ha portata in centrale, facendomi così perdere il lavoro.»
«Che?» Mi guarda con il sopracciglio alzato e la bocca corrucciata, non sa se ridere o se incazzarsi.
«E’ una lunga storia, avrai modo di sentirla a tavola, sono certa che Robert tirerà fuori l’aneddoto prendendosi gioco di Jasper!» Gli sorrido e percorro il corridoio di casa di Robert con lui al mio fianco, come una volta… come tanti anni prima, in un’altra città così lontana da sembrare un’altra vita.


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