giovedì 19 novembre 2015

Capitolo Cinque

** Note di Aly

Buongiorno a tutte.
Vorrei passare oltre e non scrivere nulla nelle note, ma non è possibile, perchè non sarei io.
Decisamente queste giornate sono difficili, per molti. Ho pensato di pubblicare l'aggiornamento lunedì per allietare un po' le nostre menti e pensare a qualcosa di diverso da quello che sta accadendo attorno a noi... ma non l'ho fatto, ed ora un po' me ne pento. E' come se mi fossi fatta frenare da questo, è come se mi avessero, per qualche momento, impedito di pensare a cose belle della vita. E così è come se avessero vinto loro. Non farò della retorica e non scriverò di quanto sia stato difficile quella notte attaccata alla televisione, di quante lacrime represse ho dovuto mandare giù... credo che sia un po' il sentimento di ognuno di noi. Non solo per venerdì notte, ma per tutto quello che sta accadendo attorno a noi, che ci distrugge, in qualche modo, il futuro e le nostre libertà.
Avrei dovuto pubblicare lunedì, come forma di protesta, come libertà di fare ciò che mi piace, come diritto al divertimento... e invece me ne sono stata a riflettere... e non è uscito granchè, solo senso di impotenza.
Quindi oggi posto il capitolo, pentendomi di non averlo fatto prima e scusandomi con tutti voi. Quando succede una tragedia del genere è come se mi spegnessi per un po' ed ho bisogno di riprendermi, sono troppo sensibile alle volte.

Ora però andiamo avanti, guardiamo oltre, teniamoci saldi i nostri valori e le nostre libertà, i nostri diritti, i nostri piaceri... continuiamo a ridere, giocare, scherzare, leggere, cantare e ballare... abbiamo bisogno di felicità e di un pizzico di fantasia, tralasciamo per un attimo la cruda realtà che ci circonda e immergiamoci dentro a un libro, dentro a qualche storia... pensiamo ad altro. Perchè continuare a stare male, a riflettere, a piangere, ad aver paura non fa altro che indebolirci... e non dobbiamo lasciarli vincere.

In questo spero di aiutarvi con questo capitolo, anche se non è per niente divertente e forse non è il capitolo giusto dopo queste note, non importa, è solo fantasia, è solo una storia... che magari vi farà pensare ad altro e questo è il nostro obiettivo.

La mia frase preferita dello scorso capitolo è la seguente:
(Dal capitolo 4 di Grido nel silenzio)

Nessuno dei presenti sa chi io sia, nonostante le testate giornalistiche di prima pagina, nonostante i notiziari e il circo mediatico che è girato attorno alla mia vita per anni. Nessuno all’interno di questa sala riunioni può sapere che mio padre non ha fatto in tempo a insegnarmi nulla. Ma io sorrido e fingo, mento come sempre, perché è più facile far finta che non sia mai esistito il mio passato piuttosto che guardare in faccia la realtà e fare i conti con gli sguardi compassionevoli, ancora una volta.

La frase, ovviamente, si spiega da sola. Molte di voi avranno già in mente cosa possa essere successo a Bella, le dinamiche, i sentimenti, il dolore verrà tutto analizzato nei prossimi capitoli.
Perchè ho scelto questa frase?
Per molti motivi, come sempre. Ho immaginato come possa sentirsi una bambina a vedersi sul giornale senza capire chi ce l'ha sbattuta, da chi hanno ricevuto il permesso di manipolare così la sua vita, le sue emozioni, la sua storia. Il circo mediatico che ogni volta si leva su dopo una tragedia è quello che permette a gente lontana di capire, conoscere e ficcanasare, il più delle volte. Ma ci siamo mai fermati a pensare cosa provano i diretti interessati? Cosa sia per loro vedersi ogni mattina sul giornale?
Me lo sono chiesta più volte. E il "Non rispetto" per il dolore è ciò che mi fa stare peggio quando leggo qualche notizia.
Non vado troppo nel profondo, perchè se no vi tolgo la suspance dei prossimi capitoli, ma l'ultima frase dice molte cose.
Come si fa ad andare avanti? Davvero il tempo guarisce ogni ferita? Davvero tutto passa? Sì e no. Tutto passa, certo, sia i momenti belli che quelli brutti, ma resta sempre il ricordo in un angolo della tua mente. Da quello non puoi scappare. Non ti puoi nascondere. Puoi non pensarci, puoi non parlarne... ma sarà sempre lì, e quando meno te lo aspetti ritornerà fuori. E allora sorridi, fingi, menti... per prima cosa menti a te stessa. Ti dici che va tutto bene che... sei forte, per non piangere, abbatterti e ricominciare tutto da capo.
Ecco i miei motivi. Sono reali, come le mie emozioni e in qualche modo la storia è mia anche in questo.

Vi lascio al capitolo, ho parlato anche troppo.
Grazie a tutte per continuare la lettura.

Buona lettura e, come sempre, buona giornata.
Aly**



 

Ho perso il conto dei giorni che sono passati dalla riunione alla Cullenhale, la caffetteria non è stata più luogo di incontri con i miei ex capi, per fortuna, ma di tanto in tanto Emmett e gli altri passavano a farmi visita durante la pausa pranzo. Ci voleva del tempo per arrivare fin lì, ma non gli importava granché. A me importava. Non volevo che perdessero il posto per la mia compagnia, potevamo vederci la sera nel mio appartamento, come al solito. Ma nonostante tutte le mie sfuriate non mi hanno mai presa in considerazione.
Andrà bene così.
Dicevo, non so quanti giorni siano passati da quel pomeriggio, ma Rosalie si è fatta dare il mio numero di cellulare da Jasper e di tanto in tanto mi aggiornava su certi progetti, mi chiamava per sapere come avrei pensato io una certa campagna o che paio di scarpe preferivo sotto un determinato vestito. Non so che diavolo le prendesse, ma passavamo ore al telefono finito il mio turno alla caffetteria. Non mi dispiaceva, però. Ho scoperto che Rosalie Hale è una persona meravigliosa, sotto la scorza dura che utilizza per proteggersi.
Così la prima volta che ne ho avuto l’occasione l’ho invitata a casa mia, in una di quelle serate in compagnia di una pizza, amici, gelato e tante birre.
Ha storto il naso quando le ho detto che ci sarebbero stati alcuni dei suoi dipendenti, ma ho giocato la carta di Jasper e del fatto che stava cercando di fare colpo su Alice e lei non doveva perderselo. Ho vinto quella partita e la sera dopo si è presentata con una torta di cioccolato fondente e mandorle, penso di averla amata in quel momento. Nel gruppo si era formato un certo imbarazzo, nessuno di loro si aspettava di incontrare il proprio capo in una serata tra amici; più volte ho ignorato le occhiatacce di Alice e di Emmett, ma quando Rosalie si è cacciata le scarpe e si è sciolta i capelli, appoggiando i piedi sulla sedia di Emmett e bevendo la birra direttamente dalla bottiglia tutto è stato più semplice. Non si è parlato di lavoro, ma di viaggi, di esperienze, di avventure passate. E’ stato meraviglioso ridere e stare in compagnia con loro, mi sentivo soddisfatta di aver messo in piedi un bel gruppo di persone accanto a me. Quella sera Jasper aveva fatto di tutto per farsi notare da Alice, le si era seduto di fianco, aveva più volte sfiorato il suo braccio prendendo le cose sul tavolo, aveva involontariamente fatto cadere la forchetta per poi recuperarla appoggiando il viso sul braccio di Alice nel piegarsi. Mosse che notavamo tutti ma che evitavamo di contestare o prendere in giro. Emmett era concentrato a guardare i piedi di Rosalie sulla sua sedia, Angela osservava Seth mentre mandava messaggini a qualcuno, io parlavo con Rosalie di un viaggio in Italia.
Alla fine della serata Alice era rossa come un pomodoro per l’eccitazione trattenuta, la conosco bene, Jasper è scappato a causa di una chiamata urgente, Emmett ha riaccompagnato Angela e Seth a casa, dato che passava per la strada dove abitavano e Rosalie è rimasta ad aiutarmi a sistemare. E’ andata via alle due e mezza ringraziandomi per quella splendida cena.
Non potevo assolutamente non replicare, eravamo stati troppo bene. La settimana seguente li ho invitati nuovamente. Non ci sono state repliche questa volta, Rosalie ha portato una nuova torta, Emmett le birre, Angela e Alice il gelato e Jasper le pizze. Seth un gioco di società. Abbiamo riso fino allo sfinimento giocando a monopoli, nessuno si rendeva conto che le ore passavano, fino a quando il telefono di Jasper non squillò tra le nostre risate. Un’altra emergenza. Continuare in quel momento sarebbe stato impossibile, era Jazz quello che stava perdendo e che, di conseguenza, faceva il burlone. Sistemammo tutto e organizzammo la serata per la settimana seguente.
Il lunedì Rosalie mi chiamò chiedendomi di visionare la posta elettronica e di farle sapere qualche idea per il mercoledì, perché aveva troppo lavoro e non sapeva dove iniziare con questo nuovo cliente. Aveva scansionato ogni documento e gli appunti presi durante il primo briefing con gli amministratori della società e me li aveva spediti. L’idea giunse martedì sera mentre lavavo i piatti, lasciai tutto nel lavello e mi misi a disegnare qualche schizzo e a tracciare una mappa di idee.
Il mercoledì sera dovevamo vederci a casa mia, avevamo anticipato l’orario in modo che potessimo finire la partita a monopoli prima che Jasper fosse chiamato per qualche emergenza. Arrivarono tutti, tranne Rosalie che aveva scritto di avere una riunione che si sarebbe protratta per una mezzora in più. Quando però l’attesa divenne di due ore scongelammo le pizze senza di lei.
Stavo tagliando le fette con la rotella quando il cellulare di Jasper iniziò a suonare.
“Non è possibile!” Urlò Emmett.
“Infatti” Gli diede man forte Seth.
“Dillo che non vuoi stare qui, così non ti invitiamo!” Scherzò Angela. Alice stava zitta e mordicchiava la sua fetta di pizza, io mi ero bloccata. Non so perché ma avevo uno strano presentimento.
“Sì? Sì, sono l’agente Hale. Certo, mi dica.” L’espressione del suo volto la diceva lunga. Non era una semplice emergenza. Avevo ragione. Il sesto senso per i guai l’ho sempre avuto, fin da quando ero piccola e mamma entrava in camera mia con quello sguardo furente ed io correvo per scappare dalla sua ira. “Certo. Certo. Ho capito. Arrivo subito!” Mise in tasca il telefono, prese il giubbino dalla sedia e mi guardò dritta negli occhi, ignorando tutti gli altri.
“Non è lavoro, vero?” Mormorai a bassa voce.
“No, Rosalie e Edward hanno avuto un incidente con l’auto che li accompagnava. Devo andare in ospedale. James è sul luogo dell’incidente e mi ha fatto chiamare dai soccorsi, ovviamente non mi possono dire nulla per telefono. Mia madre e mio padre sono già stati chiamati ma… io…”
“Certo Jasper, ti capiamo. Vai e facci sapere!” Alice gli aveva messo una mano sul braccio guardandolo dolcemente.
“Vengo con te.” Dico di fretta. “Dammi un minuto che infilo le scarpe e prendo la borsa.” Corro in camera da letto, saluto affettuosamente Poppy con una carezza sulla testa e infilo al volo le converse. Prendo la borsa, la giacca e torno in salotto. Jasper si è seduto mentre Angela gli versa un bicchiere d’acqua.
“Guido io, puoi prendere l’auto domani o quando sarà. Ragazzi voi finite di cenare e quando uscite chiudete la porta a chiave, Alice ha il doppione.”
“Fateci sapere.”

Guido Jasper fino al garage sotterraneo e lo spingo sul sedile passeggero. Non mi aspettavo che fosse così sconvolto, con tutti gli incidenti e le emergenze che vede ogni giorno. Certo, si tratta di sua sorella, ma vederlo così mi spaventa. Temo un crollo e io non so come affrontarlo. Non so neppure perché mi sono offerta per andare con lui.
“Jasper, vedrai che Rosalie sta bene. Non ti hanno voluto dire nulla al telefono per la privacy. Sai come funzionano queste cose. Starà bene, magari ha qualche graffio, ma niente di serio, vedrai.”
“Sì, sì…” Non è convinto, non posso fare molto per distrarlo. Mi da le indicazioni per l’ospedale in cui hanno portato Rosalie e Edward e seguo la strada per qualche minuto in silenzio.
“I familiari di Edward sono stati chiamati?”
“No.” Sussurra appoggiando la testa al finestrino, ora molto più scosso. “No.” Ripete.
“Okay, posso chiamarli io una volta arrivati in ospedale. Non è un problema.” Supero un semaforo e mi lamento internamente del traffico serale.
“No.” Dice di nuovo e poi si schiarisce la voce. “Edward non ha nessuno.” Mi volto a guardarlo con gli occhi sgranati. Per poco evito di tamponare la macchina di fronte.
“Non ha… nessuno?” Devo deglutire e spezzare la frase, perché non riesco a pronunciarla.
“Nessuno. Non dirgli nulla quando lo vedrai, non… non chiedergli niente. Non cambiare atteggiamento, non compatirlo, non… Lascia solo stare. Lui non ne parla mai. Non lo sa nessuno di quelli che conosce ora. Lui non ha nessuno.”
“Va bene, d’accordo. Allora chi starà con lui?”
“Io.” Deglutisce e guarda fuori dal finestrino. Lui non vorrebbe stare con Edward, lui vuole essere al fianco della sorella.
“Posso stare io con Edward, ho fatto volontariato in ospedale quando avevo ventidue anni, non è un problema. So che vuoi stare con Rosalie.”
Quando parcheggio Jasper aspetta qualche secondo prima di scendere dall’auto e prima di parlare.
“Voglio stare con Rosalie, ma devo e voglio stare vicino a Edward. Nonostante tutto… Sarà difficile gestirlo stasera o domani.”
Non dico nulla, mi assicuro di chiudere l’auto e mi avvio, seguendolo, dentro l’ospedale. Chiede informazioni e ci fanno accomodare nell’area urgenze del pronto soccorso. Incontro e conosco i genitori di Jasper, ci aggiornano sulle condizioni di Rosalie, ma nessuno sa nulla di Edward. Rosalie è entrata in condizioni critiche, sta subendo un intervento e solo quando sarà finito ci daranno notizie.
Mi siedo di fianco alla madre di Jasper e le stringo una mano, so cosa prova in questo momento e so cosa vuol dire per lei trovarsi qui. Indipendentemente da ciò che ogni famiglia ha vissuto, questo è un luogo che ti annienta e sono minuti, ore, che ti lasciano il segno per sempre. Jasper ha tirato fuori il distintivo e ha chiesto informazioni su Edward a un’infermiera, anche lui è sotto intervento. Non ci resta che aspettare e sperare.
Dopo un’ora ricevo un messaggio da Alice che dice di aver sistemato la cucina, aver dato da mangiare a Poppy e aver chiuso la porta con doppia mandata. La ringrazio e le dico che c’è solo da aspettare.
Jasper cammina avanti e indietro, consumando le suole delle scarpe e il pavimento del pronto soccorso. Suo padre stringe sua madre in un abbraccio e lei trema. Mi tolgo la giacca appoggiandogliela sulle spalle e vado a prendere qualcosa di caldo per tutti. Al bar dell’ospedale incontro James, il collega di Jasper.
“Ehi, Isabella vero?”
“Sì, tu sei James invece.”
“Cosa ci fai qui?”
“Jasper era da me quando l’ospedale l’ha chiamato, l’ho accompagnato. Sono venuta a prendere qualcosa di caldo per i suoi genitori e per lui.”
“State insieme?”
Mi guarda con un sopracciglio alzato. Gli sembrano domande da fare? La barista mi chiede cosa voglio e ordino, evitando di rispondere alla domanda di James.
“Scusa, so che non è il momento adatto per questa domanda. E’ che… Niente. Non ho nulla in contrario se sei la sua ragazza ma, per favore, stagli vicino. Sembra un ragazzone ma è facile ferirlo e perderlo per strada.” Le sue parole mi fanno girare di scatto con il porta bicchieri di cartone tra le mani.
“Non sono la sua ragazza James, sono solo un’amica. Rosalie è mia amica e non ho intenzione di lasciarlo da solo ad affrontare tutto ciò. Non sono la sua ragazza, ma se tu sei suo amico dovresti essere di là con noi, invece che accusare me di voler ferirlo.” Me ne vado, lasciandolo da solo a riflettere. Porgo i bicchieri alla famiglia Hale e sorseggio il mio caffè macchiato, mentre osservo la figura di James entrare nel pronto soccorso e abbracciare il suo collega. Si scambiano qualche parola sussurrata, probabilmente inerente all’incidente e capisco solo che l’autista è morto sul colpo. Deve essere stato davvero un brutto incidente.
Dopo altre due ore infinite un chirurgo esce da quelle maledette porte dell’area d’urgenza e ci aggiorna. Rosalie sta bene. Ha una gamba rotta che hanno operato e ingessato, due costole rotte, delle escoriazioni sul braccio per via di alcuni vetri che l’hanno ferita e una brutta ferita alla testa che hanno ricucito. Hanno fatto la tac per riscontrare possibili traumi interni ma, per fortuna, non ve ne è traccia. I genitori chiedono se la possono vedere e gli viene detto di aspettare che la portano in reparto, nella camera assegnata a lei. Jasper invece chiede di Edward. Il chirurgo dice che dovrà aspettare il suo collega e ci saluta.
I coniugi Hale vengono indirizzati al reparto in cui stanno portando Rosalie, mentre Jasper resta in pronto soccorso ad aspettare notizie di Edward. James se n’è andato subito dopo aver saputo di Rosalie, dovrà coprire il turno di Jasper domattina.
“Non serve che stai qui, Isabella. Puoi tornare a casa, sono le tre della mattina. E tu non puoi prenderti giorni di riposo.”
“Non preoccuparti. Aspetterò con te e quando è ora andrò al lavoro da qui direttamente.”
“Perché lo fai?”
“Perché sei mio amico, perché ti voglio bene e perché ne voglio a Rosalie. Non ti lascio da solo.”
“Non sto aspettando Rosalie, non sono qui solo per Rosalie. Lo sai che sto aspettando notizie di Edward. L’uomo che ti ha rovinato la carriera e che tu non sopporti. Perché aspetti con me?”
“Perché non voglio lasciarti solo, perché a volte stare soli fa proprio schifo e perché odio il fatto che Edward sarà da solo quando si sveglierà, perché tu vorrai stare con Rosalie e poi dovrai tornare al lavoro.”
“Chiunque altro se ne fregherebbe.” Mormora.
“Io non sono chiunque. Ho fatto la volontaria in ospedale per un anno e mezzo.” Anche se stiamo condividendo questa nottata assurda e tragica ancora non me la sento di raccontare un pezzo di me. Non ce la faccio proprio.
“I tuoi segreti prima o poi verranno fuori, lo sai vero?”
“Non sarò io ad aprire quei cassetti.” Sussurro. Lui potrebbe già saperlo, in realtà, eppure non mi tratta diversamente né mi dice che lo sa.
“Ovviamente! Hai un bel po’ di cose in comune con Cullen, se non scorresse così tanto odio fra voi… potresti essere importante per lui.” Lo sa. Lo sa e vuole che sia io a parlare. Lo sa ma non mi spinge a parlare. Lo sa, ma non mi compatisce.
Sto per rispondergli ma un uomo vestito di verde esce dall’area urgenze e chiede dei parenti del signor Cullen. Io e Jasper gli andiamo incontro, ovviamente fa storie quando vede me e sono costretta a mentire.
“Sono la sua fidanzata. Isabella Swan.” E’ incerto, ci guarda come per soppesare i pro e i contro, ma alla fine controlla di nuovo il distintivo di Jasper e ci spiega.
“Il signor Cullen ha riportato una frattura al braccio destro, l’ortopedico ha sistemato l’osso fuoriuscito e ingessato, vi dirà lui stesso domattina quanto ci vorrà prima del prossimo controllo. Ciò che ci ha preoccupato in realtà sono state le ferite al fianco e allo stomaco. Dovrà stare a riposo per un mese, niente sforzi, niente piegamenti, nessun movimento brusco né attività fisica.” Mi guarda con un sopracciglio alzato. Attività fisica? “Di nessun genere.” Oh. Oh. Attività fisica. Di nessun genere. Sesso. “Abbiamo fatto delle tac e delle radiografie per escludere emorragie o fratture in altre parti del corpo. Abbiamo notato una massa all’altezza dei polmoni, dove è presente una vecchia cicatrice. Fra qualche giorno il medico effettuerà qualche esame approfondito.”
“Possiamo vederlo?”
“Lo stanno svegliando dall’anestesia al momento, fra mezzora lo porteremo in camera.”
“Ehm dottore…” Jasper tira da parte il dottore per potergli parlare in tranquillità ma sento ogni cosa che dice. “Il signor Cullen ha problemi con gli ospedali, quando si renderà conto di dove si trova potrebbe sembrare un pazzo. E’ stato in cura per anni con uno psicologo ma non hanno trovato una cura adatta né il bandolo della matassa. In più ha spesso incubi notturni che rievocano momenti del passato che lo impauriscono. Grida e si agita. Credo sia meglio tenerlo sedato finché le ferite non si stabilizzano.”
“Lei non è solo un poliziotto? Non dovrebbe essere la sua fidanzata a dirmi queste cose?” Mi lancia un’occhiata e io sconsolata abbasso gli occhi sulle mie scarpe.
“Conosco Edward da quando siamo bambini, era in macchina con mia sorella questa sera, lavorano insieme. La sua fidanzata non dorme con lui proprio per questi problemi, lui non vuole. E’ possibile tenerlo sedato?”
“Questa notte dormirà a causa dell’anestesia, domattina parlerò con il medico di reparto e farò scrivere nella sua cartella che al bisogno verrà sedato. E’ il caso che qualcuno resti con lui, nel caso dovesse agitarsi da solo nella stanza.”
“Certamente.”
Il dottore ci congeda con un cenno del capo e Jasper si avvicina a me. Mi guarda dispiaciuto e mormora un debole “Non dirlo a nessuno”, annuisco e lo seguo mentre chiede alle infermiere quale sarà la camera e il reparto di Edward.

Quando lo portano nella camera Cullen sta dormendo, restiamo a osservare da fuori mentre le infermiere gli sistemano i tubicini, i monitor, le sonde e tutto il resto che consegue. Quando Jasper entra lo seguo, in silenzio. Prende posto sulla sedia a fianco del letto e sospira, sembra voglia parlare, ma le parole restano incastrate dentro la gola. Non oso farmi più vicina, Jasper sembra abbia davvero voglia di restare da solo con lui. Mi appoggio alla porta, ora chiusa, della stanza e cerco di non muovere nemmeno un muscolo per non distrarlo.
“E così eccomi di nuovo qui. Sono di nuovo al tuo fianco, di nuovo in un letto di ospedale. Tu non hai idea di quante volte io sia stato seduto al tuo fianco mentre dormivi profondamente controllato dai monitor. Non hai idea di quante volte volessi svegliarti scuotendoti e dirti che sei uno stupido, che… Dio!” Si passa una mano che trema sulle labbra e chiude gli occhi, stringendoli forte.
Non ho mai visto Jasper in una situazione del genere, non ho mai sentito Jasper parlare di Edward o parlare con lui, a parte quel breve intermezzo nella sala riunioni quando sono stata licenziata. Resto sconvolta a fissare la scena.
“Un piano più sopra c’è Rosalie, sai quanto voglio bene a mia sorella, eppure sono qui con te. Con te, maledizione. Mi farai morire di crepacuore un giorno, senza saperlo.”
Le parole sono dure ma calde, non è un uomo freddo, non sta parlando come se fosse un vecchio compagno di giochi perso per strada. C’è molto di più tra loro, come ho sempre immaginato.
“Starò qui, finché non ti svegli. Starò qui. Non sei solo, Edward. Non sei solo.” Gli occhi mi si inumidiscono e sento le lacrime premere e spingere per venire fuori. Ho visto molte scene da pianto in ospedale e fuori, ma questa mi tocca particolarmente. Jasper appoggia la mano su quella di Edward e la stringe appena mormorando ancora tenue “Non sei solo”.
Esco nel corridoio e mi siedo nella sala d’aspetto, c’è un distributore automatico di caffè, probabilmente farà più schifo di molti altri che ho provato, ma ho bisogno disperato di caffeina, tra tre quarti d’ora devo partire per andare al lavoro. Prendo anche delle barrette energetiche e un saccottino alle mele, un caffè in più per Jasper e torno in camera a passo lento. Appoggio sul comodino una barretta energetica e il caffè e poso una mano sulla spalla di Jazz.
“Tra poco devo essere al lavoro, passo da casa a cambiarmi prima. Ti ho preso un caffè forte e qualcosa da mangiare, dovresti assumere qualche caloria Jazz.”
“Hai sentito tutto, vero?”
“Non so di cosa parli.” Gli sorrido mesta e poi mi piego a baciargli la guancia. “Fammi un favore, mangia la barretta e bevi il caffè. Finito il turno verrò in ospedale a darti il cambio.”
“No. No. Preferirei che andassi a casa a riposarti. Io starò con Rosalie due ore oggi mentre i miei si riposano e poi tornerò qui e stanotte andrò a riposare, deve esserci qualcuno con Edward. Non posso lasciare i miei genitori. Non posso chiederglielo. Vorrei che stessi tu stanotte.”
“Certo. Posso farlo.”
“Non sarà facile. Si sveglierà, urlerà, si agiterà. Devi tenerlo fermo, devi chiedere i sedativi, devi…” Di nuovo si passa una mano sulle labbra e poi sui capelli. L’altra mano non lascia mai quella di Edward. “Non lasciarlo solo. Lui lo sente, se è da solo si agiterà.”
“Non lo lascerò solo. Mangia e bevi il caffè, a più tardi.”
Lascio l’ospedale di fretta, corro a casa a cambiarmi, esagero con il deodorante e con il profumo. Non ho il tempo di fare la doccia e vorrei non sentire addosso quell’odore freddo e chimico dell’ospedale. Vorrei non esserci entrata ancora una volta, vorrei solo che fosse un brutto incubo. Invece mi sono offerta di stare con Edward stanotte, ho accompagnato Jasper e mi sono offerta di stare con un uomo che non mi sopporta, che mi ha licenziato, che ha una bassa considerazione di me e che nel momento in cui mi vedrà darà di matto. Sono una masochista, ecco cosa sono. Una pazza masochista. Dovrei parlare con il mio psicologo. Sì, come se fosse ancora disponibile a riprendere la terapia dopo tutti questi anni.
Bruce mi guarda stralunato quando entro nella caffetteria con i capelli raccolti, gli occhiali e la faccia pallida.
“Che succede?”
“Niente, nottata da dimenticare!”
“Fatto baldoria?”
“No, attesa in pronto soccorso. Davvero non è niente, riesco a lavorare, a sorridere e a essere una brava cameriera, ho solo bisogno di caffè ora.”
Butto via il primo caffè della macchinetta, il secondo è sempre più buono perché la macchina si è scaldata. Bruce inizia a distribuire su un piatto i muffin che la pasticceria all’angolo ci ha portato. Io mentre bevo il caffè riempio le ciotole di bustine di zucchero.
La giornata prosegue, senza intoppi. Scrivo un paio di messaggi a Jasper che risponde laconico, tengo aggiornata Alice e lei tiene aggiornata me sulla Cullenhale. Pare che Angela abbia preso il comando al posto di Cullen e di Rosalie e che abbia iniziato a mettere in riga tutti. Angela in versione capo mi fa uno strano effetto, ma ce la può fare. Deve farcela. Tutti e due i responsabili sono fermi in un letto di ospedale.
Quando finalmente torno a casa sento la stanchezza fin dentro le ossa, devo riposare, la notte è ancora lunga. Ho avvisato Bruce che domani entrerò in servizio alle otto, gli ho spiegato che ho un’amica ricoverata in ospedale a cui bisogna fare assistenza e non ha famiglia. Ha storto il naso, mi ha guardata con circospezione e poi ha detto okay. Ho tutto il tempo di fare la notte al fianco di Cullen e arrivare in caffetteria. Mi preparo già il cambio in una borsa che lascio in macchina, preparo il portatile da tenere con me in ospedale e qualche merendina da mangiucchiare. Fanculo anche alla linea. Mi butto sotto la doccia e il getto caldo dell’acqua mi scioglie i nervi, ne avevo un bisogno disperato. Quando tocco il cuscino ho già un occhio mezzo chiuso. Imposto la sveglia e crollo addormentata.

La sveglia suona, la spengo e mi alzo, consapevole che tra dieci minuti dovrò essere in macchina, occhi aperti e concentrazione al massimo. Mi sciacquo la faccia con l’acqua fredda, mi cambio e prendo un maglione in più se mi viene freddo. Gli ospedali ti muniscono di coperta se fai assistenza, ti passano la colazione volentieri, ma non sempre la coperta ti scalda come un maglione fatto a mano da tua nonna. Guardo la fotografia sopra la scrivania della mia camera, mando un bacio come sempre e poi sistemo le ciotole di Poppy. Prendo le borse e mi avvio nel garage. Le strade sono trafficate anche alle nove di sera, ci metto più di mezzora ad arrivare all’ospedale. Parcheggio vicino all’entrata, sono fortunata a trovare un posto libero, lascio la borsa con il cambio nel bagagliaio e porto il resto con me. Prima di salire passo in caffetteria a farmi riempire la tazza di caffè. Il mio thermos comodo e personalizzato che ho da quando frequentavo il college.
Passo da Rosalie e trovo già il papà.
“Come sta?” Mormoro dopo averlo salutato.
“Si è svegliata qualche ora fa lamentandosi del dolore alla gamba. Le hanno dato un po’ di antidolorifico ed è tornata a dormire.”
“Vedrà che si rimetterà.” Appoggio la mano sulla spalla e lui mi sorride dolcemente.
“Ne sono sicuro. Rosalie è molto forte. Ho sentito che stanotte farai la veglia a Edward. Lo conosci da molto?”
“No. Lavoravo per la Cullenhale fino a un mese fa circa, sono stata licenziata proprio da Edward. Ma non è importante. Le cose accadono e non possiamo tornare indietro. Jasper mi ha detto che… insomma Jasper vuole andare a riposare e io ero disponibile e…” Mi trovo a disagio, non so se i genitori di Jasper conoscono Edward come lo conosce lui, non so se sanno che è qui da solo, che non ha nessuno.
“Tranquilla, conosciamo Edward da quando aveva pochi mesi di vita. So tutto. Capisco perché sei qui e ti fa onore.”
“Oh.” Scuoto la testa, mi avvicino a Rosalie per salutarla con una carezza sul braccio e poi mi volto per andarmene. “Non si dovrebbe mai stare in ospedale da soli, ho fatto la volontaria per un anno, posso sopportare qualche nottata.”
Lo saluto e mi dirigo nella camera di Edward.
Come la scorsa notte Jasper è al suo fianco, la testa chinata sulle spondine del letto, la mano sopra quella dell’amico. Le spalle sono curve e il respiro è pesante, sta dormendo. Appoggio le mie cose nel tavolino di fianco alla finestra e mi avvicino piano a Jasper, sussurro il suo nome per svegliarlo, ma basta una sillaba e apre gli occhi.
“Oh, sei qui.”
“Sì, è il caso che tu vada a casa a riposare.”
“Tu hai fatto quello che ti ho detto?”
“Sì, ho con me qualcosa per affrontare la nottata sveglia, ho dormito appena sono arrivata a casa e ho anche avvisato il mio capo che domattina farò tardi. Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo.”
“Bella…” Guarda prima me e poi Edward steso sul letto, immobile.
“Lo so Jasper. Lo so.  La mano sempre sulla sua e se si agita fermarlo con tutte le mie forze mentre chiamo per avere un sedativo. Me l’hai detto.”
“Non è solo questo. Stamattina si è svegliato poco dopo che sei andata via. Ha cominciato a urlare che voleva andarsene, ha iniziato ad agitarsi, non deve, le ferite non si sistemeranno mai. Rischia di farsi del male.” Lo osservo, mi sta dicendo cose che so già, perché lo ripete?
“Jasper-” Mi interrompe scuotendo la testa.
“Gli incubi sono brutti Bella, sono davvero brutti. Non svegliarlo, calmalo in qualche modo e se non ce la fai chiama qualcuno. Non svegliarlo, calmalo.” Lo guarda e gli stringe la mano più forte. Non li ho mai visti insieme fuori di qui, se non quando hanno litigato in sala riunioni, so che si conoscono da tempo, so che ne hanno passate tante insieme ma Jasper si comporta come un fratello e non come un amico. Resto sconvolta dall’amore fraterno che leggo nei suoi occhi, dalla curvatura delle sue spalle, dalla preoccupazione nella sua voce.
“Io…” Sono costretta a fermarmi, respirare e ricominciare. “Farò tutto quello che posso, ascolterò i tuoi consigli e cercherò di calmarlo. Non lo sveglio. Non si farà del male e gli farò dare dei sedativi. Tu vai a casa, calmati, riposati e fatti una doccia. Ci vediamo domattina e se ho bisogno ti chiamo.”
“Non so come mai sei qui. Non lo so.”
“Sì che lo sai, ma fai finta di niente.” Mi guarda negli occhi, mi fissa, mi scruta come se avessi sganciato una bomba, poi sospira e abbassa gli occhi sulla mano di Cullen.
“Lo so, ma vorrei che ti sentissi libera di parlarmene quando vuoi.”
“Non ne parlo mai.”
“Lo vedo. Lo so. Eppure… ti farebbe bene.” Alza gli occhi su di me. “Anche Edward è così, anche lui non parla mai, si tiene tutto dentro da anni, non si sfoga mai, non mi chiama mai, non… Dannazione!” Si passa una mano sugli occhi prima che possa sfuggirgli qualche lacrima, ma io la vedo, e mi ferisce tantissimo.
“Jasper…”
“No. No. E’ solo la stanchezza e la frustrazione. Non posso fare nulla per Edward, non mi vuole attorno a lui, nella sua vita, ci ho provato ma non mi ascolta, non mi parla, litighiamo e basta. Ma tu Bella, tu puoi parlarmi, puoi raccontarmi se ne hai voglia.”
“Sono scappata da una cittadina perché tutti sapevano, tutti parlavano, tutti mi guardavano Jasper. Sono scappata perché era troppo difficile essere quella ragazza. Ho costruito barriere che non voglio perdere, per favore, non abbatterle. Non c’è niente da dire. C’è solo da andare avanti ogni giorno.”
Annuisce, stringe la mano di Edward e raccoglie le sue cose. Mi saluta con un bacio sulla guancia ed un grazie prima di sparire.
Mi avvicino la sedia ancora di più al letto, prendo il portatile e prendo posto. Appoggio la mano sinistra su quella di Edward e inizio a scorrere i file nel computer. Leggerò qualche libro nell’attesa della mattina.
La mano di Edward è morbida sotto la mia, è calda, ma immobile. Vedere lui in questo letto è troppo, è strano; proprio Cullen che non si è mai fermato un attimo da quando ci siamo conosciuti, da quando ho iniziato a lavorare per lui. Eppure è qui, fermo, immobile, come se fosse una statua di sale. E’ strano, angosciante, ti fa pensare che potrebbe succedere a chiunque, che non importa chi tu sia, se è destino sarà il tuo turno.
Nonostante ci sia l’orologio sullo schermo del pc, sono talmente presa a leggere delle conquiste di questo uomo, protagonista del libro che non mi rendo conto di quanto tempo passa. Ad un certo punto sento la mano di Edward tremare sotto la mia. Appoggio il pc per terra, in velocità, e mi tengo pronta. Il braccio si alza come preso dalle convulsioni, e le spalle cominciano a tremare. Mormora suoni incomprensibili e faccio fatica a tenerlo fermo.
“Shhh. Calmati, calmati. Va tutto bene.” Dico a bassa voce. Tengo le mani sulle sue spalle, faccio una leggera pressione per tenerlo fermo, individuo il campanello e lo pigio in fretta, meglio chiamare per nulla che farlo quando sarà troppo tardi. Ho fatto una promessa a Jasper e intendo mantenerla.
Cullen si agita ancora, i suoni sono più forti, ma ancora incomprensibili; vorrei poterlo capire per riuscire a farlo calmare, per trovare un appiglio e parlargli del suo incubo, tranquillizzarlo, ma niente. Il braccio ingessato si muove, comincia a gemere forte, il corpo si agita, sembra voglia alzarsi in piedi e correre. Sento i passi delle infermiere che stanno arrivando, sento il dolore di tutti i suoi pugni sui fianchi, sulla pancia, ma non mi muovo, lo tengo fermo come posso, cercando di non fargli muovere il busto, la parte del suo corpo più critica. Ci riesco buttandomici sopra con tutto il peso, è davvero forte.
Quando le infermiere aprono la porta e un raggio di luce gli illumina il volto un grido squarcia il silenzio. Un grido forte, chiaro, che non avrei mai voluto udire.


“MAMMAAAAA!”

lunedì 2 novembre 2015

Capitolo Quattro




Quando la sveglia suona sul mio comodino, sto già bevendo il caffè. L’adrenalina, l’ansia e l’agitazione per questa giornata è alle stelle. Ieri sera avevo preparato la borsa per non dimenticare nulla, neppure un appunto, ma appena sveglia ho ricontrollato che ci fosse ogni cosa.
Ho finito la colazione, ho messo il solito lucida labbra con un po’ di mascara e ho indossato pantaloni neri e t-shirt bianca, la divisa del lavoro. Ieri era giorno di chiusura quindi ne ho approfittato per fare il bucato.
Finalmente non so più di fritto ma di sapone e pulito, durerà gran poco ma per lo meno nessuno potrà dire che puzzo come la cucina di un fast-food.
Chiudo l’armadietto con il lucchetto e nascondo la chiave dentro la tasca dei miei pantaloni, non sono così scrupolosa solitamente, ma all’interno di quelle lamiere ci sono soldi a palate e progetti che valgono migliaia di dollari. Informazioni sbagliate nelle mani sbagliate e potrei ritrovarmi in mezzo a un processo legale che non finisce più. No, grazie.
L’ora di pranzo arriva puntuale con tutti i suoi studenti frettolosi e con manager che passano per un semplice caffè da portar via, segretarie indaffarate e piene di mansioni si districano tra i clienti con tazze di caffè e sacchetti del pranzo da portare in ufficio. La solita mattinata e la solita pausa pranzo. Quando il campanello sopra la porta suona per l’ennesima volta sono pronta a strapparmi ogni capello dalla testa e licenziarmi, ma ho solo questo lavoro e deve andarmi bene. E’ solo lunedì e la settimana è ancora così lunga che mi spaventa. Non alzo neanche gli occhi dai caffè che sto preparando, Bruce penserà a far sedere i nuovi clienti.
“Isabella, chiedono di te al tavolo sei.” Deve essere Rosalie, nessuno qui dentro sa ancora come mi chiamo, al di fuori di Bruce e del cuoco. Copro i caffè da portar via per l’ultima segretaria rimasta nel locale e mi lavo le mani prima di raggiungere Rosalie. Quando alzo gli occhi sul tavolo, però, resto spiacevolmente delusa. Non aveva parlato di un briefing. Aveva detto che avremmo parlato io e lei, non io, lei e Cullen. Evito di andare a prendere le dispense dentro l’armadietto, magari sono solo venuti a pranzare qui perché si trovavano da queste parti, magari non è qui per questo, lui non lo sa e vorrà dirmi di vederci più tardi. Spero solo non sia un’imboscata.
“Salve, volete ordinare?” Mi stampo in faccia il sorriso migliore che riesco, anche se è platealmente falso. Edward alza gli occhi di scatto su di me e poi lancia un’occhiataccia alla sua socia che alza le spalle e gli occhi nello stesso momento.
“Isabella, per favore portami un sandwich vegetariano, con l’aggiunta di una fetta di formaggio, un frappè al cioccolato, un caffè nero e un bicchiere di vino bianco fermo. Tu Edward cosa prendi?”
“Un hamburger con insalata, non condita, senza pepe e senza mais. Maionese. Un bicchiere di rosso, non frizzante.”
“Nessun dolce, Edward?” Rosalie ridacchia mentre si sistema la coda di cavallo già perfetta.
“No, nessun dolce” Dice a denti stretti il mio ex capo. Segno le ordinazioni, prendo una caraffa d’acqua, i due bicchieri di vino e li porto per primi al tavolo, mi volto di fretta, prima che possano fermarmi con qualsiasi domanda e cambio tavolo. Devo ringraziare che ci sia ancora qualche cliente, anche se questo vuol dire che prima della fine del turno non potrò mangiare nulla. E’ stata un’ottima idea quella di bere un caffè verso le undici.
Quando il cuoco trilla che sono pronte le ordinazioni di Rosalie e Edward li servo, ma Rose mi ferma e mi invita a sedermi con loro.
“Non posso, sto lavorando!”
“Dobbiamo discutere di quella cosa, ricordi? Prenditi una pausa!” Mi mordo il labbro leggermente e annuisco. Avviso Bruce che sono arrivate quelle persone con cui devo parlare assolutamente di una cosa importante, glielo avevo accennato la mattina e mi ha detto che posso recuperare stasera stando un’ora in più. Tra la pausa pranzo, la pausa caffè e l’extra che mi ha concesso ho la bellezza di due ore. Dovrei farcela a esporre tutto. Tiro fuori dall’armadietto la borsa e rubo qualche biscotto e una tazza di caffè prima di sedermi al tavolo con i miei ex capi.
“Non abbiamo mai mangiato con i tirocinanti, oggi hai intenzione di andare contro corrente Rose?”
“Perché no? In più lei non fa più parte del nostro staff!”
“Lo so bene!”
“Ottimo, perché devi sapere anche un’altra cosa. Ho suddiviso i tuoi lavori tra me, Angela, Emmett e Isabella.” A Cullen va di traverso la carne ed è costretto a bere un sorso d’acqua per non soffocare.
“Hai fatto cosa?”
“Non sei riuscito a fare granché in queste settimane. Avevamo bisogno di mandare avanti i lavori e necessitavo di persone competenti e fidate.”
“E sei venuta da lei?” Ignoro il dolore di questa frecciatina perché se dovessi prendermela ogni volta che qualcuno tenta di offendermi mi sarei già chiusa in casa.
“Sì, perché nonostante ciò che pensi tu era la più valida di quel branco di idioti che continui a sobbarcare di lavoro per nulla!”
“Quanto l’hai pagata?”
“Il giusto perché facesse il lavoro in poco tempo e fuori dalle sue mansioni!”
Edward si volta verso di me con rabbia.
“Quanto ti ha pagata?”
“Parla con me ora, non ti deve interessare. Non li perdi tu i soldi, li guadagni e basta se ha fatto un buon lavoro. Quindi ora stai zitto, finisci la tua bistecca e ascoltiamo le sue idee.”
Immaginavo che lo stomaco mi si chiudesse ancora di più, non consideravo, però, l’idea che fosse talmente stretto da non farci scendere neppure una goccia di caffè.
“Avanti Isabella, inizia, sentiamo quali splendide idee hai avuto a cui non potevamo arrivare noi!” Il sarcasmo con cui si rivolge Cullen mi imbarazza ancora di più e devo prendermi un attimo di tempo per racimolare le idee. Una volta che rientro in possesso della calma e della mia sicurezza apro la prima dispensa: Newton.
“Newton offre abbigliamento di vario genere, sportivo, casual, casual elegante e per tutte le età. Ci ha chiesto di concentrarci sullo spot per l’abbigliamento da bambino, l’assortimento è quasi simile a quello di un adulto ma dalla sua parte ha l’economicità rispetto ad altri marchi registrati. Non è ovviamente merce dei grandi magazzini e non è abbigliamento di alta sartoria, si colloca nel mezzo ed è appetibile per diverse fasce di prezzo. Ho sviluppato due idee. Quella principale, un po’ rischiosa ma sicuramente di grande impatto è quella che vede protagonisti tre bambini diversi che fanno shopping con le loro mamme all’interno dei magazzini Newton e che si perdono. Iniziano a cambiarsi d’abito numerose volte mentre corrono da un reparto all’altro. Si divertono e quando tornano alle casse dalle loro madri indossano ciò che più amano, tre look diversi dalla testa ai piedi. Le mamme sorridono e le cassiere se la ridono. Lo slogan l’ho solo abbozzato per ora, ne devo parlare con Newton perché sinceramente non mi piace quello che mi ha dato. Devo pensarne uno di nuovo. Qualcosa come “Persino i bambini amano scegliere i vestiti da Newton, è così divertente!” Ma come ho detto, devo ancora studiarlo a fondo. Mi sono concentrata per avere una seconda alternativa meno rischiosa.”
Prendo un sorso di caffè per bagnarmi la gola e mostro la seconda immagine.
“La seconda idea che vi propongo mi è venuta in mente un paio di sere fa, quindi è solo una bozza, un’idea buttata lì, semplice e facile da realizzare. Vista e rivista. Un bambino in primo piano a cui la mamma si diverte a cambiare l’abbigliamento più volte durante la giornata, per ogni occasione diversa. Lo slogan è la prima cosa che mi è nata. “Le mamme di oggi non hanno mai tempo, ma per un nuovo look Newton hanno sempre un minuto libero!” Come ho detto questo è meno rischioso, meno dispendioso, già visto simile in alcuni casi. Ma funziona, è sicuro.”
Rosalie mi guarda prendendo un sorso di vino bianco e mi fa cenno con la mano di andare avanti. Prendo un respiro profondo e mi addentro in quello che è il vero problema.
“Ora passiamo a ciò che ha messo un po’ in crisi tutta la mia settimana.” Mormoro cambiando dispensa e tirando fuori il blocco appunti dalla borsa. “Questa è l’azienda MilCros, è nata una decina di anni fa da Daniel Milèt e Gin Cros ed è leader nel settore degli utensili. Cacciaviti, trapani, cesoie, pinze e via dicendo. Il giro d’affari è così alto che ha promesso soldi a palate per uno spot e per una cartellonistica che sapesse rompere gli schemi e assicurargli nuovi profitti sempre maggiori. Il progetto era stato affidato a Vincent, il quale ha portato avanti un’idea per niente malvagia ma che a vostro parere mancava di spina dorsale. L’ho guardata, analizzata a fondo e mi sono chiesta: cosa cerca il cliente quando va in negozio e deve acquistare della strumentazione? Cosa lo colpisce dell’acquisto che sta per fare? E poi mi sono chiesta: perché l’azienda ci ha dato un così ampio raggio d’azione? Abbiamo carta bianca, potremmo valorizzare decine e decine di elementi positivi della azienda, eppure Vincent si è concentrato solo sul mostrare che questa società è azienda leader nel settore.”
“Il che non è sbagliato. E’ ciò che ci ha chiesto il cliente!” Mi interrompe Edward bevendo un sorso di vino.
“No. E’ proprio qui che sbagliamo. Il cliente ha chiesto di valorizzare l’azienda per incrementare i profitti. Stiamo parlando di una società ben avviata, con investitori di un certo livello e quotazione in borsa. Non ha bisogno di farsi conoscere. Non è una start-up. E’ una veterana che mette al servizio del cliente affidabilità, credibilità, assistenza post-acquisto e una vastità di prodotti che altre marche non possono, al momento, eguagliare. Lasciamo perdere la cartellonistica per un momento e concentriamoci sullo spot. E’ un’azienda che ha già uno slogan, dobbiamo solo creare un impatto visivo di massa. Dobbiamo fare in modo che l’uomo di tutti i giorni entri in un negozio e domandi attrezzature MilCros.”
“Se fosse stato così semplice non avremmo aspettato così tanto a proporlo al cliente.”
“Lasciala finire!”
“Prendiamo una famiglia standard. Due figli, madre e padre. Lui torna a casa dal lavoro dopo essere stato numerose ore in banca e la moglie ha un tubo che perde in cucina, i figli hanno staccato una mensola e l’hanno rotta. Sul tavolino del salotto trova uno di quegli opuscoli che arrivano a casa dei negozi, quelli con i coupon. E sulla copertina la foto di un set di cacciaviti in offerta della MilCros. L’uomo si reca di corsa nel negozio e chiede la strumentazione di cui ha bisogno, nel reparto in cui ci sono gli strumenti più difficili da utilizzare un addetto della MilCros chiede all’uomo se necessita di aiuto. L’uomo esce soddisfatto dal negozio, il sacchetto pieno di utensili e vola a casa dalla famiglia a sistemare ciò che è rotto. Lui che fa pubblicità positiva con i colleghi nel luogo di lavoro.”
“Troppo caotico. Difficile da realizzare, soprattutto in un minuto e mezzo.”
“In realtà i tempi non sono così stretti come si può pensare. Qualche piccolo secondo viene rubato all’uomo che rientra vestito di tutto punto con la cartellina in mano, la moglie lo raggiunge insieme ai figli e vengono mostrate le immagini in bianco e nero. La parte in negozio è più difficile da realizzare ma anche lì vengono rubati neanche venti secondi, il resto viene adoperato per mostrate l’uomo che utilizza gli utensili con facilità e che fa feedback positivo con il collega che gli chiede se ha guardato la partita di baseball del pomeriggio precedente, con il nostro uomo che dice di no perché ha sistemato con piacere i danni di casa.”
Edward scuote la testa, Rosalie invece sta in silenzio.
“E’ un azzardo ma piuttosto che mostrare la catena di montaggio e il controllo che fanno in azienda sui pezzi da vendere è meglio dimostrare ai potenziali clienti come possono essere utili gli stessi strumenti a persone semplici come loro.”
“E’ un’idea assurda.”
“No, per niente.” Si intromette Rosalie. “Ci stavo riflettendo e non è assolutamente male. Bisogna gestire i tempi e magari ci stiamo stretti ma può funzionare.”
“Rose che cazzo stai dicendo!”
“Pensaci Edward, è quello che serve. Non bisogna fermarsi a mostrare cosa fanno quelli della ditta, dobbiamo far vedere che cosa ogni uomo può fare con un cacciavite MilCros!”
“E’ un’assurdità!”
“Piantala di essere pessimista e ottuso. E’ un’idea che si può proporre al cliente nel momento in cui verrà alla riunione mercoledì. Cosa che di sicuro non puoi fare con l’idea di Vincent. Isabella, grazie. Entrambe le idee sono valide e coerenti con il cliente. Mi trovi d’accordo con te anche per Newton, meglio il rischio e la novità piuttosto che la sicurezza e la solita solfa.”
“Stai dicendo sul serio Rose? Ti fai dare consigli sul marketing da una ragazzina che ti serve il pranzo?” Il tavolo traballa sotto il suo pugno ed io scatto all’indietro spaventata.
“Puoi portarci il conto Isabella?” Dice pacata Rosalie ignorando l’accusa di Edward.
Mi alzo di scatto e mi dirigo alla casa regalando un sorriso debole a Bruce. Quando torno stanno ancora discutendo e non accennano a smettere. L’oggetto della discussione sono io e le mie scarse capacità di marketing secondo Cullen.
“Se fosse così brava come dici farebbe ancora parte del nostro staff, invece ti ha appena servito il pranzo in una caffetteria scadente!”
“Hai fatto lavori più umilianti per mantenerti durante gli studi, Edward. Dovresti solo tacere. Oltretutto sei stato tu a sbatterla fuori per un ritardo, se non fa parte dello staff è solo colpa tua. Ora tira fuori il portafoglio e paga, Isabella sta aspettando per tornare a lavorare.”
Sbuffa lasciando settanta dollari sul tavolo e andandosene subito dopo, non so dove sia abituato a mangiare ma decisamente sono troppi anche con la mancia. Restituisco venti dollari a Rosalie che mi guarda sorridendo.
“Non vuole ammettere che hai fatto un grande lavoro. Ci vediamo nel mio ufficio mercoledì alle cinque del pomeriggio, voglio che tu assista alla riunione con la MilCros e che mi aiuti a esporre la tua idea. Newton è un cliente di Edward purtroppo, spero solo che non getti al vento la tua idea!”
Annuisco e la osservo mentre se ne va.
Non è andata come speravo, chissà cosa avrò mai fatto a Cullen?

Il martedì sera mi sono infilata sotto le coperte presto, in modo che nonostante il lavoro della giornata potessi arrivare all’incontro con Rosalie riposata e piena di energie. Nella mente continuavano a girare le immagini dello spot, di come lo volevo e di come l’avevo pensato. Solo il pensare che saremmo state io e Rosalie, senza Cullen, mi rasserenava un po’. Ma quando alle cinque ho bussato alla porta di Rosalie e sono entrata mi sono bloccata di colpo e la mia energia si è volatilizzata. Edward Cullen occupava una delle due sedie poste davanti alla scrivania, l’altra doveva essere per me.
“Prendi posto, Isabella. Abbiamo delle cose di cui discutere prima dell’arrivo degli amministratori delegati di MilCros.” Mi sono accomodata sulla sedia, ma lo sguardo di Cullen non mi faceva rilassare, sono rimasta tutto il tempo sulle spine e non ho spiccicato parola se non quando necessario per rispiegare la mia idea. Rosalie ha messo appunto qualche dettaglio, ha preso appunti e aggiunto note man mano che le cose le venivano in mente, io non sono stata capace neanche di passarmi una mano tra i capelli senza tremare.
“Vi lascio cinque minuti da soli, cercate di non scannarvi. Vado ad accogliere i clienti da Alice e vi raggiungo in sala riunioni, per cortesia, pensate nell’ottica della società.” Si sistema la camicia blu elettrico sopra la gonna nera e si chiude la porta alle spalle. Sospiro alzandomi dal mio posto e mi avvio, non ho intenzione di aspettare Cullen, farmi insultare e offendere ancora una volta. Quando tutto ciò sarà finito voglio scordarmi ogni momento passato con lui qui dentro.
“Allora, come vanno la tesi e il tirocinio?”
Non mi ero accorta che mi aveva seguita fin dentro la sala riunioni, e meno che mai mi sarei aspettata una domanda così inadeguata.
“In realtà è tutto fermo. Il tirocinio dovrò riprenderlo per intero, cambiare la tesi e cercare un nuovo relatore. Le società che collaborano con l’università non vogliono merce pezzata. Di conseguenza ho disdetto tutto e ritirato la domanda di laurea.” Non so se il tono freddo e risentito con cui l’ho detto l’abbia ferito, o se si penta delle sue azioni, credo principalmente la prima, credo che l’abbia accolta come una frecciatina, un’accusa. Ha un’espressione sorpresa e dispiaciuta. E fa bene a sentirsi in questo modo, è colpa sua se la mia carriera va a rotoli.
“Isabella…” Mormora iniziando una di quelle frasi che sembrano sentite e risentite per chiedere scusa. Per fortuna la porta della sala riunioni si apre in quel momento, interrompendolo.
“Prego, accomodatevi. Qui ci sono Edward Cullen, il mio socio e co-fondatore di Cullenhale e la signorina Swan, una nostra collaboratrice esterna che ha lavorato al progetto per il vostro spot. Tra poco la segretaria ci farà avere dei caffè e dell’acqua, c’è qualcosa che desiderate?”
Gli amministratori si siedono scuotendo il capo, tirano fuori le loro agendine di pelle, la loro penna stilografica e gli occhialini dalla borsa, io capito seduta alla destra di Edward, mentre Rosalie prende posto alla sua sinistra.
“Possiamo cominciare?”
Ad un loro cenno affermativo i miei due ex capi iniziano la spiegazione dello spot, i punti di forza e i punti critici da eliminare. Chiedono la disponibilità di un esperto da inserire all’interno dello spot e informazioni utili per la pubblicità. I clienti di fronte a noi appaiono perplessi e un po’ insicuri, titubano a dare la loro approvazione e continuano a bisbigliare tra loro senza renderci partecipi. Vorrei dire loro che è cattiva educazione ma probabilmente mi rinchiuderebbero in un manicomio, sarebbe effettivamente una pazzia.
“Lei signorina, lei non ha mai parlato durante questa ora e un quarto nella quale i suoi colleghi hanno esposto la vostra idea. Lei cosa ne pensa?”
Parlano con me, lo so bene, eppure non riesco a dire una parola. Resto fissa a guardarli come se non stessero parlando con me. E invece ci sono io al centro dei loro interessi, al momento. Ma come faccio a parlare? Sono stata tutto il tempo a osservare, memorizzare, sentirmi orgogliosa del mio lavoro. Ora ho il timore di rovinare tutto.
“Signorina Swan, non è vero?” Annuisco debole al richiamo del secondo amministratore. “Mi dica, se dovesse mai guardare uno spot come questo entrerebbe in una ferramenta per domandare uno dei nostri prodotti?”
Mi guardano tutti e più di ogni cosa sento lo sguardo bruciante di Cullen sul mio volto, vorrei girarmi e dirgli di smetterla di guardarmi in questo modo, ma non posso. Vorrei anche che la smettesse di respirare a fondo come se fossi al patibolo e lui non vedesse l’ora che mi facciano fuori. Vorrei non aver mai accettato l’offerta di Rosalie, non averlo mai tirato fuori dai casini e non trovarmi in questo luogo: la sala riunioni in cui sognavo di essere da un anno e due mesi. Che scherzo del destino!
“La signorina Swan non è certo il tipo di ragazza che entra in una ferramenta, signori. Non credo che abbia mai cambiato una lampadina nel suo appartamento o alla sua auto. Dobbiamo guardare oltre!”
Le parole di Cullen mi fanno salire una rabbia provata solo poche volte. Lui non sa un cazzo di me, come si permette? Mi giro verso di lui e dal suo sguardo serio capisco che crede davvero a quello che dice. Scoppio a ridere.
“Ovviamente il signor Cullen non mi conosce se non nell’ambito professionale e, devo ammetterlo, alcune volte pare non conoscermi neppure lì. Dovete scusarlo. E’ ovvio che io abbia cambiato le lampadine alla mia autovettura, come è normale che gestisca in autonomia le lampadine del mio appartamento!” Strizzo l’occhio al team di MilCros sorridendo e facendoli sorridere. “Dunque, non ho ancora avuto modo di entrare in una ferramenta, di recente, ma posso assicurarvi che mio padre nella sua cassetta degli attrezzi ha dei cacciaviti, una pinza e un tronchesino MilCros. Forse anche dell’altro, al momento non ricordo. Il design non è cambiato e ricordo perfettamente il manico nero puntellato con tre strisce arancioni nel mezzo dell’impugnatura!” Mi osservano quasi con orgoglio, mentre Cullen al mio fianco freme di rabbia. Ben ti sta, impiccione!
“Quindi pensa che lo spot funzionerà?”
“Vi dirò di più, quando mi è stato chiesto di contribuire a questo progetto ho ragionato come Vincent per qualche minuto, l’alternativa del nostro collega era insipida, puntava a mettere in mostra il vostro business e il vostro giro d’affari, perdendo di vista l’importanza della comunicazione spiccia e pratica. Nell’ideare questo spot mi sono domandata: un impiegato di banca che deve sistemare la mensola delle sue bambine per i loro peluche, se non sa cosa scegliere come farà a prendere la decisione su quale cacciavite è il migliore? Ecco come mi è venuta l’idea. Assumendo l’ipotesi di un banchiere che deve riparare le mensole alle sue bambine e che sceglie i vostri prodotti. Uno spot del genere indurrà persone che non ne sanno di fai da te ad avvicinarsi al vostro marchio e fidelizzerà i clienti già acquistati.”
“Suo padre le ha aggiustato le mensole con i nostri utensili?” Chiede uno di loro con un sorrisino.
“Ha fatto di meglio, mi ha insegnato come utilizzarli!” Gli strizzo l’occhio e ridiamo, tutti i presenti escluso Cullen.
Nessuno dei presenti sa chi io sia, nonostante le testate giornalistiche di prima pagina, nonostante i notiziari e il circo mediatico che è girato attorno alla mia vita per anni. Nessuno all’interno di questa sala riunioni può sapere che mio padre non ha fatto in tempo a insegnarmi nulla. Ma io sorrido e fingo, mento come sempre, perché è più facile far finta che non sia mai esistito il mio passato piuttosto che guardare in faccia la realtà e fare i conti con gli sguardi compassionevoli, ancora una volta.

Alla fine della riunione abbiamo il via libera per iniziare con lo spot, la cartellonistica e i volantini, il contratto è stato sottoscritto ed è stato staccato il primo assegno. Non ho mai osservato come si chiudeva una trattazione, ma sono felice di averne fatto parte oggi.
Saluto i clienti e raccolgo le mie cose, pronta ad andarmene il prima possibile. Rosalie mi da una stretta sulla spalla e mi ringrazia prima di rispondere al telefono fuori dalla sala riunioni. Resto chiusa nella sala, ancora una volta, da sola con Cullen.
“Oggi mi ha ricordato un buon motivo per averla licenziata!”
“Sì? E cosa di grazia?”
“La sua boccaccia, la sua impertinenza, la sua minima professionalità di fronte a un cliente, la sbadataggine, l’imbarazzo e il tentennamento.”
“Mi duole correggerla, signor Cullen, ma questi sono più che un buon motivo. Sono molti motivi e ben più gravi di un semplice ritardo, giustificato per altro.”
“Quindi concorda con me che sia stata la scelta giusta licenziarla.”
“Oh certo!” Torno indietro e appoggio le mani sulla scrivania, lo guardo dall’alto al basso solo perché è seduto, in realtà in piedi mi sovrasta di un paio di spanne. “Sono convinta che sia stata la scelta giusta quella di licenziarmi, perché sono indisponente, ritardataria, impertinente, chiacchierona, sbadata e poco professionale. Sono anche una ragazzina tutta imbarazzo e tentennamento. Ha ragione. Ma la prossima volta che avete un problema cercatevi un dipendente che stia alle vostre condizioni e che faccia il lavoro per cui è pagato invece che venire da me!”
Resta a guardarmi con un sorriso sarcastico e le braccia incrociate sul petto, convinto di avere la vittoria in mano.
“E’ stata Rosalie a chiamarla, per me lei è una fallita che non ha neppure portato a termine il suo tirocinio con tanto di tesi.” Non me ne frega un’accidenti dell’educazione che mi hanno impartito i miei genitori, è solo una questione di sopravvivenza giunti a questo punto.
“Una fallita che oggi le ha salvato il culo, signor Cullen. Se lo ricordi. Servirò anche caffè e pranzi in una caffetteria non adatta al suo stile di vita, ma ho frequentato questa società per un anno abbondante e oggi il cliente era soddisfatto della mia idea. La mia idea, signor Cullen. Non la sua. Più volte nel corso di questo periodo alla Cullenhale ho avuto a che fare con la sua professionalità ridotta al minimo, ma non l’ho certo segnalata a Rosalie, invece lei ha ben pensato di licenziarmi al primo sgarro. Ha perso così la stima di molti colleghi, della sua socia che si è affidata alla licenziata per terminare dei lavori che lei non riusciva a portare avanti, ha perso una valida collaboratrice e ha fatto fermare la mia carriera. Questo è un fallimento per la maggior parte delle persone, signor Cullen. Cosa ne pensa ora della mia boccaccia?”
Mi guarda furioso e si alza in piedi con i pugni stretti sui fianchi.
“Lei non sa niente di me, di questa società o di come io abbia fallito. Non le permetto di parlarmi in questo modo.”
“Cominci lei a portare rispetto. Sono sempre una persona, signor Cullen. E questa partita l’ho comunque vinta io. Addio!”
Non so come riesco a girargli le spalle e andarmene a testa alta senza fare gestacci che mi porterebbero dalla parte del torto. Quando esco dalla sala riunioni trovo Rosalie appoggiata al muro di fianco alla porta.
“Ma allora è un vizio dei fratelli Hale, quello di ascoltare le conversazioni altrui.”
“Mio fratello me l’ha insegnato quando ero più piccola. L’ho visto fare milioni di volte. Sai vero che devi andartene di qui prima che Edward ti faccia portare fuori di peso, non è vero?”
“Certo. Sto andando infatti. Non c’entro niente con questo posto, me ne sono resa conto pochi minuti fa.”
“Non è vero.” Mi scruta con occhio critico. “Non è vero Isabella. Hai carattere, hai stoffa, sai fare bene il tuo lavoro e sei professionale e determinata. Continua su questa strada e il mondo del marketing sarà ai tuoi piedi.”
“Non vedo come…” Mormoro lanciando un’occhiata al tizio dentro la sala riunioni da cui sono appena uscita. Un uomo che pensa di me tutto il contrario e che non mi ha mai stimata per la persona che sono, difficilmente potrò trovare altri che la pensino diversamente da lui. Soprattutto con un licenziamento dalla Cullenhale alle spalle.
“Ci sentiamo presto Isabella!” Mi lascia con una strizzata d’occhi e rientra nella sala per calmare Cullen.
Io torno a casa con calma e mi fermo al supermarket a due isolati per prendere del gelato e una pizza congelata. Questa sera ho voglia di restare da sola e coccolarmi. Anche se ho risposto a Edward ed ho alzato la voce ora mi sento ferita, umiliata e privata di ogni energia. Le conseguenze di queste ultime settimane mi pesano, mi incurvano le spalle e mi imbruttiscono. Lo diceva sempre mia madre a mio padre: “Charlie devi evitare di portarti sulle spalle tutto il peso dei problemi. Diventi gobbo e diventi brutto. Le vedi quelle rughe sulla pelle, quelle attorno agli occhi e attorno alla bocca? Devi smetterla di incupirti, diventi brutto.” Mio padre guardava mia madre con un sopracciglio alzato ogni volta e poi scoppiava a ridere. Ho sentito le stesse frasi per anni, senza capire davvero il significato di quelle parole. Poi mi è capitato di guardarmi allo specchio quando avevo quindici anni, ho sorpreso la prima ruga attorno agli occhi e mi sono ricordata di quanto i pensieri e i problemi facessero ringrinzire la pelle. Ho iniziato a frequentare un corso di yoga per rilassarmi, per lasciare i problemi fuori dal mio corpo e dalla mia mente per qualche ora. Ogni volta che vedevo una ruga sul mio viso facevo qualcosa di bello, qualcosa che mi facesse rilassare, che mi permettesse di non pensare a ciò che succedeva nella mia vita. Ho sempre avuto degli amici al mio fianco, quelli veri che c’erano sempre, bastava che alzassi il telefono e loro correvano da me, per me; poi, ad un certo punto, ho tagliato tutti i legami, sono scappata da quel passato troppo difficile da portare avanti, troppo pesante da trascinare. Ho cambiato città e ho cercato di cambiare vita. Eppure quel passato torna a bussare alla mia porta. Se solo avessi raccontato ad Alice o a Emmett ciò che è stato potrei chiamare loro, farmi stringere tra le loro braccia e dimenticare tutto. Ma ho preferito dare un taglio netto e quindi sono sola. Ho solo voglia di sedermi sul divano, coccolare Poppy e stare da sola ad autocommiserarmi.