**Note di Aly
Salve a tutte. Vi ho fatto aspettare anche troppo per l'aggiornamento,
mi dispiace. Questo dovrebbe essere un momento di gioia e serenità per
tutte quante, invece è uno dei peggiori momenti possibili. Ci sono cose
che sfuggono al nostro controllo e che ci tagliano la strada lungo il
percorso, in questi casi non si sa mai come affrontare le conseguenze e
tutto ciò che viene poi. Per colpa di questi ostacoli e anche perchè ho
partecipato ad un contest natalizio, ho lasciato da parte gli
aggiornamenti di questa storia per qualche giorno. Ma adesso sono
tornata e spero, nonostante tutto, di riuscire a pubblicare in tutta
tranquillità.
Vi avverto che nei prossimi giorni, probabilmente, pubblicherò delle OS
che hanno partecipato a vecchi contest e che ancora non ho messo online
per voi, tenete d'occhio il blog delle OneShot!
E' Natale, quasi, e vi ricordo che potreste farvi un regalo tutto per
voi acquistando l'ebook Bout de Souffle su Amazon. L'autrice sono io, la
storia è quella che pubblicai su EFP tempo fa e che ha riscosso molto
successo, solo che è diventata una lunga ed emozionante storia da
leggere con calma. Trovate il link della pagina Amazon del Libro qui a fianco.
Se volete leggere le storie del contest natalizio a cui ho partecipato vi lascio il link qui: http://natale2015-twi-contest.blogspot.it/2015_11_01_archive.html
Leggete il regolamento per votare
se volete e lasciate un commento a tutte le storie, se volete. Le
autrici lo apprezzano molto e le storie sono sempre molto belle.
Passiamo a noi.
Affrontiamo, questa volta, un capitolo sempre denso di bellissime e profonde emozioni.
Il mio pezzo preferito dello scorso capitolo è la seguente:
Dal sesto capitolo di Grido nel Silenzio:
“Non voglio più dormire.”
“L’ho detto tante volte anche io. Poi però ho trovato la pace e riesco a
riposare bene ogni notte. Per questo devi farti degli amici, devi
ricominciare a frequentare Jasper, a sfogarti, dormirai meglio e gli
incubi spariranno per un po’. Sarà tutto più semplice.”
“Niente lo è.”
“Lo sarà. Chiuderai tutto in un armadio, lo coprirai con un telo bianco e
lo lascerai lì dentro per giorni, settimane, mesi. Poi saprai che è lì,
ma è nascosto. Non ti tortureranno gli incubi per settimane e per
interi mesi. Sarà più facile, sarà più semplice.”
“Lo credi davvero?”
“Lo so.” Mormoro distratta.
Guardo ancora lo schermo davanti a me senza più parlare, nella mente
solo l’immagine di una bambina seduta dentro una macchina mentre guarda
l’ambulanza portare via suo padre.
Bene, adesso vi lascio alla lettura del capitolo e ci rivediamo nei prossimi giorni.
Vi auguro Buone Feste e tanta serenità se non dovessi passare di qui prima di Natale.
Come sempre, Buona lettura e buona serata.
Aly**
Mi
sono appisolata verso le quattro, Edward dormiva pacifico oppure faceva
finta per non dover parlare con me. In quel caso, però, mi aspettavo
che aprisse gli occhi e mi maledicesse quando appoggiai una mano sulla
sua. Ero stanca di leggere per cui avevo appoggiato la testa alla
spondina del letto e avevo preso sonno. Il telefono aveva iniziato a
vibrare verso le otto e dieci, mi ero svegliata di scatto, ero uscita
dalla stanza di Edward per lasciarlo riposare e avevo risposto a Bruce.
Mi chiese come stavo, se mi era passato il dolore e se potevo lavorare
il giorno dopo. Jasper gli aveva raccontato che mi ero fatta male
tornando a casa ieri e che mi aveva portata in pronto soccorso. Non
sapevo come sarebbero andate le cose, per cui gli dissi che sarei andata
a lavorare il giorno seguente. Senza ombra di dubbio. Mi disse di
riposare e di farmi trovare in forma per il turno della mattina, dalle
sei. Odiavo quel lavoro, ma mi permetteva di pagare le bollette e
mangiare ogni giorno, per cui dovevo tenermelo. Pensare che la causa di
tutto era steso sul letto dentro la stanza alle mie spalle mi faceva
venire un po’ di rabbia, ma mantenevo la calma, la colpa era di
entrambi. Fine delle trasmissioni. Ero rientrata in camera e avevo
ripreso il mio posto, la mia mano sulla sua e la testa sulla spondina,
ma non ero più riuscita ad addormentarmi. Così avevo preso a giocare con
uno stupido gioco sul cellulare fino a quando le infermiere non vennero
a controllare Edward. Mi fecero uscire dalla stanza e ne approfittai
per andare a prendere del caffè al bar. Non sapevo cosa Edward potesse
mangiare per colazione, ma supposi che gliel’avrebbero data le
infermiere. Comprai anche un muffin al caramello e andai a trovare
Rosalie. Era sveglia, mentre sorseggiava del tea caldo.
“Ciao.” Mi sorrise appena, i capelli raccolti dalla benda, il viso un po’ acciaccato e gli occhi stanchi.
“Ciao Bella, che ci fai qui di prima mattina?”
“E’ meglio tu non lo sappia ancora, finisci di fare colazione prima!” Le
feci l’occhiolino e presi posto nella sedia lasciata libera da suo
padre. “Come ti senti?”
“Uno straccio. La testa mi fa male e la gamba… non ne parliamo.”
“Ti vedo stravolta, in effetti. Devi riposare.”
“Sì, tornerò a dormire non appena finisco di mangiare. Ho una fame da lupi.”
“Ci scommetto. Con le medicine che ti danno è normale.”
“Ora raccontami perché sei qui.” Sospiro, pronta a sentirla urlare.
“Sono qui per Edward. Jasper mi ha detto che è solo e mi sono fatta
trascinare dalla mia aria da crocerossina offrendomi di stare con lui
per qualche ora. Ma qualche ora è diventato molto di più quando tuo
fratello mi ha incastrata fino a oggi pomeriggio perché lui è al lavoro.
Insomma, sono la balia di Edward.”
“Isabella…”
“Lo so. Lo so. Non guardarmi così.”
“No, non lo sai. Senti Edward è orgoglioso, fa fatica ad ammettere di
aver sbagliato ma si pente di averti licenziata. Non avercela con lui.
E’ solo molto ferito e alle volte dorme male per cui si alza stronzo. Ma
non è così male se lo conosci bene.”
“Non è male, no. Lo so che ha gli incubi, stanotte mi sono praticamente
sdraiata sopra di lui per tenerlo fermo. So più di quanto pensi e… lo
capisco. Non ce l’ho con lui, ma il destino è amaro certe volte.”
“E tu invece sei così buona. Grazie per quello che fai per Edward. Io e Jasper te ne siamo grati.”
“Ti sei avvicinata a Edward quando lui ha smesso di stare con Jasper,
vero?” Le chiedo di getto. Lei annuisce muovendo pianissimo la testa.
“Era più facile per lui stare con te piuttosto che con Jasper. Perché?”
“Perché io lo trattavo come se fossi una stronza, mi sono sempre
comportata così con lui e lo trovava accettabile. Jasper però gli è
sempre stato vicino, tutte le volte che…”
“Che finiva in ospedale?”
“Come lo sai?”
“Ho ascoltato Jasper chiacchierare con un uomo addormentato l’altra
notte. Diceva che non era solo, che c’era lui, che anche questa volta
era lì mentre lui se ne stava sdraiato e addormentato… e cose del
genere.” Rosalie sospira e mi guarda.
“Non dovresti sapere queste cose!”
“Senti Rosalie, la situazione qui è al limite della follia. Io non so se
ce ne rendiamo conto ma è davvero assurdo, tutto quanto. Io non sono
nessuno per stare di sotto con Edward, non sono amica, non sono la
fidanzata, non sono la sua famiglia. So che non ha nessuno, so che è
solo e lo capisco, comprendo perché tu e Jasper pensate a Edward e
cercate di stargli vicino come potete. Sono brava a capire queste cose.
Quindi non dirmi cosa dovrei o non dovrei sapere. Chiaro? Perché, a
rigor di logica, io non dovrei neppure stare di sotto con lui!”
“Lo so.”
“Ecco, quindi vuoi raccontarmi una buona volta?”
“No, non posso. Sai già troppo e Edward mi strangolerebbe se sapesse che
ti ho raccontato anche questo. Non posso proprio.” Annuisco sconsolata.
Passo qualche altro minuto con Rosalie, senza parlare di Edward e senza
affrontare discorsi seri, lei finisce di fare colazione e io sorseggio
il mio caffè. Dopo di ché la saluto e torno alla mia postazione da
balia. Edward è sveglio quando ritorno, la colazione è ancora nel
vassoio sul comodino, non è stata toccata e le infermiere non l’hanno
aiutato. Mi avvicino al letto e prendo posto sulla sedia, lui ha gli
occhi incollati sui piedi nascosti dalla coperta, io cerco di non
fiatare. Odio questa cazzo di situazione imbarazzante.
Mi schiarisco la voce e mi azzardo ad alzare gli occhi su di lui.
“Le infermiere non ti hanno aiutato con la colazione?”
“Non ho fame.” Mormora serio e corrucciato. Okay, non ha fame. Ma se
hanno portato qualcosa per lui dovrebbe mangiare comunque, dovrebbe
sforzarsi.
“Lo capisco, ma ti danno dei medicinali che ti rovinano lo stomaco, il
protettore da solo non fa molto. Dovresti davvero ingerire qualcosa e
bere del tea caldo, in modo che il tuo organismo riprenda le vecchie
abitudini.” Mi accascio sulla sedia priva di forze. Ho riposato poco, è
vero, ma non è solo per questo che sono stanca.
“Cosa ne sai tu di cosa è meglio per me?”
“Adoro la tua acidità di prima mattina, ma sono così felice di non
dovermela sorbire ogni giorno!” Mi nasce un sorriso sarcastico sul viso e
per togliermelo scuoto la testa. Non serve questo ora.
“Quella è la porta, puoi tornartene a casa!”
“Stamattina sei di buonumore. Tutta questa allegria mi sta mettendo a disagio, Cullen!”
“Te lo ripeto, puoi andartene, nessuno ti obbliga a stare qui. Tantomeno
a rivolgermi la parola.” Si deve essere svegliato male, probabilmente
le infermiere avranno ripulito le ferite e toccandolo il dolore è
ricominciato più acuto di prima. Oppure mentre ero via ha avuto un altro
incubo. No, le infermiere al banco me l’avrebbero detto quando ero
tornata.
“D’accordo. Stamattina non sei collaborativo. Facciamo una cosa, tu stai
zitto e non mi contagi con tutta questa allegria e io non ti costringo a
mangiare. Contento del patto?”
“Sì.” Mormora serio, ancora fisso sui suoi piedi. Prendo il cellulare
dalla tasca e inizio a controllare la posta elettronica, facebook e a
giocare a qualche stupidaggine per passare il tempo. Non guardo
l’orologio, se dovessi farlo mi accorgerei del tempo che passa
lentamente, perché è sempre così quando sei dentro l’ospedale. Ad un
certo punto devo per forza alzare gli occhi su Edward perché sento il
suo stomaco brontolare. Mi scappa una risata e non riesco a contenermi.
Lui gira la testa dall’altra parte con le guance rosse. Orgoglioso che non è altro.
“Hai fame, per caso?” Dico piano.
“No.” Il suo borbottio mi fa ridere fragorosamente.
“Ne sei sicuro? Perché ho sentito il tuo stomaco borbottare.”
“Ci senti male, Swan!”
“D’accordo.” Ancora con il sorriso sulle labbra mi rimetto a dare
attenzione al cellulare. L’infermiera si affaccia alla porta
distogliendo la mia attenzione.
“Signor Cullen, il medico ha detto che deve mangiare o non potrà farle
l’iniezione pomeridiana per il dolore, non possiamo più nutrirla con le
flebo, deve riprendere ad abituare il corpo alle sostanze liquide e
solide. Si sforzi.”
“Non ho fame.” Borbotta ancora.
“Signorina, veda di convincerlo!” Mi lancia un’occhiata eloquente e se
ne va. Scoppio a ridere. Come se non ci avessi già provato.
Torno al mio cellulare ma lo stomaco di Edward mi distrae continuamente, fino a impedirmi addirittura di pensare.
Mi incazzo dentro me stessa e devo calmarmi prima di rivolgergli la parola.
“Senti, vuoi dirmi che ti prende? E’ chiaro che hai fame, il tuo stomaco
si sente fino a Miami!” Le sue guance si colorano di rosso ancora una
volta, ma resta sempre a guardare da un’altra parte.
“Non posso mangiare da solo. Non ho mai imparato a mangiare con la
sinistra. E odio farmi imboccare da qualcuno.” La sua confessione mi fa
ridere da una parte ma mi intenerisce. E’ sempre stato autonomo e ha
gestito la sua vita da solo, ora si trova a dover dipendere da qualcuno.
“Potevi chiederlo alle infermiere, è il loro lavoro.”
“Hai sentito la parte in cui ti ho detto che odio farmi imboccare?”
“Edward, hai un braccio ingessato e devi mangiare. Due sono le
soluzioni. O ti fai imboccare o impari a usare la mano sinistra.”
Borbotta qualcosa che non capisco e torna a ignorarmi. Non caviamo un
ragno da un buco di questo passo.
Afferro il tavolinetto e lo avvicino a me, il vassoio contiene una tazza
di tea al limone, uno yogurt magro e dei cereali. Una colazione
leggera, che non penso possa soddisfare la fame del campione qui steso.
“Avanti, sii collaborativo. Ti imbocco io!”
“No.” Sbuffo sonoramente. Mi ha proprio scocciata.
“Senti Cullen, stamattina ti sei svegliato male, odi farti imboccare ma
devi mangiare e, te lo assicuro, non ho una pazienza infinita. Se devo
ti infilerò giù questo cibo con la forza, quindi collabora o mi
costringerai a stancarmi ancora di più e non potrò andare a lavorare
domattina e mi licenzieranno. Ancora una volta. E non vorrai avere mica
sulla coscienza un altro mio licenziamento, vero?”
“Sei proprio dispotica.”
“E tu sei un bambino. Forza, avanti!” Si gira verso di me sbuffando.
Puoi sbuffare quanto vuoi, carino, ho visto gente molto più ostinata di
te cedere sotto le mie pressioni. Soddisfatta di me stessa apro lo
yogurt e lo verso nella ciotola dei cereali.
“Odio lo yogurt magro. Sa di acido.”
“Beh è giusto per il tuo umore mattutino, le infermiere probabilmente ti
conoscono bene!” Mi lascio scappare ridacchiando, mi lancia
un’occhiataccia ma non mi lascio intimorire. “Cosa preferiresti
mangiare?”
“Basterebbe un po’ di zucchero o del cioccolato. I cereali senza
cioccolato fanno schifo. Ho delle palline di cioccolato a casa che ci
starebbero divinamente!” Gli si illuminano gli occhi e scoppio a ridere,
a volte sembra proprio un bambino.
“Va bene!” Frugo nella borsa alla ricerca della mia barretta di
cioccolato fondente e lo raggiungo. “Non lo diciamo a nessuno!” Gli
strizzo l’occhio e continuo a spezzettare la cioccolata nello yogurt
mentre lui mi guarda soddisfatto. Mescolo tutto con il cucchiaio e poi
zucchero il tea al limone.
“Lo bevo amaro.”
“No, lo bevi zuccherato. Il tuo corpo ha bisogno di energia, lo zucchero
ti aiuta in questo, ti hanno messo due bustine di zucchero per una
tazzona di tea, vuol dire che ne devi assumere un po’. Che tu lo voglia o
no.”
“Odio il tea, preferisco il caffè. E odio lo yogurt magro. E odio farmi imboccare!” Borbotta imbronciandosi.
“E io odio dover imboccare un lamentone. Davvero Edward, neppure i
vecchietti con cui ho avuto a che fare con il volontariato erano così
rompi palle!” Avvicino il primo cucchiaio di yogurt alla sua bocca e
inizio a dargli da mangiare. Si sporca in continuazione ma la sua
lingua, prontamente, passa a raccogliere lo yogurt che resta sui bordi.
E’ qualcosa di indecente, sensuale, eccitante. Devo distogliere
l’attenzione e concentrarmi sulla sua colazione, o rischio di fare
figure di merda. Finisce la scodella di yogurt e cereali in pochissimo
tempo, gli passo un tovagliolo sulle labbra e sul mento e mentre lo
faccio i nostri occhi si incrociano. Maledizione. Quel verde attrae come
una calamita e le sue labbra sembrano così morbide, così piene. Deve
essere un gran baciatore.
A che diavolo sto pensando, dannazione!
Il tea è un po’ più critico da fargli bere, ma con pazienza riesco a non versarglielo tutto addosso.
“Porto il vassoio alle infermiere, saranno felici che tu abbia mangiato.
Magari pensano che sei un po’ meno stronzo a pancia piena. Che
dispiacere quando scopriranno che sei sempre il solito guasta feste!”
Ridacchia e schiocca la lingua sul palato mentre esco.
L’infermiera a cui consegno il vassoio mi guarda riconoscente e con un po’ di compassione.
“Signorina Swan, come fa a sopportarlo tutti i giorni?” Scoppio a ridere
e scuoto la testa. “Stamattina Claire è andata a svegliarlo per
medicare le ferite sull’addome e si è inviperito, ha chiesto di lei e
poi ha borbottato scontroso tutto il tempo. E’ ingestibile!”
“No, è solo ferito e sta male.” Lo difendo. Aspetta, lo difendo? Che
diavolo mi è preso. Quell’uomo è proprio come lo descrivono. Incazzata
con me stessa volto le spalle ai camici blu e torno in camera. Edward
sta cercando di mettersi seduto, sorreggendosi con il braccio sano alla
spondina, sul volto è disegnata una maschera di dolore.
“Che cazzo stai facendo?”
“Sono stufo di stare steso.”
“Se ti hanno messo in quella posizione c’è un motivo. Devi stare steso.”
“No, ho il culo piatto, un tutt’uno con la schiena, devo fare delle telefonate e lo yogurt acido mi sta tornando su.”
“Edward fermati!” Glielo ripeto più volte appoggiandogli le mani sulle
spalle per tenerlo fermo, ma sono troppo stanca. “Per favore, stai
buono!”
“Isabella lasciami!” Dice forte. Abbasso lo sguardo su di lui e noto sul camice una macchiolina di sangue. Merda.
“Edward, fermo! Fermo, cazzo! Stai sanguinando.” Si blocca e guarda dove
gli indico con il dito. La macchia si allarga. Merda. Appoggio la mano
sul campanello e chiamo alla disperazione, so che comunque ad un certo
punto smette di suonare, ma mi sento più tranquilla sapendo di essere
appesa a quel campanello.
“Merda.” La faccia di Edward è pallida, ha lo stesso colore del lenzuolo bianco che gli copre dal bacino in giù.
“Edward respira, guardami e respira.” Quando diavolo ci mettono le
infermiere? Cullen alza gli occhi su di me, sono grandi, terrorizzati e
dentro ci vedo più di quello che vuole mostrare. La paura non ha nulla a
che vedere con il presente. Merda. Quante cose abbiamo in comune? Non
so dove trovo la forza di staccarmi dal campanello, appoggio una mano
sulla sua e la stringo forte, poi mi abbasso tanto da guardarlo negli
occhi. “Non è nulla, è solo saltato un punto, stai calmo e respira.
Respira con me. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Così, bravo.”
“Odio il sangue.” Mormora a bassa voce. “Ci sono cose che odio e basta,
ma il sangue mi fa anche paura. Odio il sangue, ho paura del sangue.
Dimmi che non c’è più sangue. Dimmelo.” Guardo giù verso il suo addome e
scopro che il camice è macchiato più di prima. Altro che punto saltato,
qui è partita tutta la striscia.
“Dimmi cosa posso fare.”
“Dimmi che non c’è più sangue.”
“Non posso dirtelo, perché odio mentire.”
“Anche tu odi qualcosa allora!” E’ ancora bianco come un foglio di carta
e gli occhi sono ancora terrorizzati. Devo pensare a una strategia per
non fargli pensare al sangue. L’infermiera entra in camera chiedendo
cosa succede. Le mostro con la mano libera il busto di Edward e lei
sgrana gli occhi, scappa dalla camera in cerca di qualcuno o qualcosa.
Non so perché ma in questo momento mi preoccupa di più la tranquillità
di Cullen.
“Ogni mattina che entravo nell’edificio dove ha sede la Cullenhale mi
domandavo di che umore fossi. Pregavo perché avessi la giornata buona e
fossi un po’ più calmo ad ogni riunione. Penso di averti visto calmo,
davvero calmo, due giorni solo. Il primo che ricordo è stato grandioso,
quella sera sono tornata a casa e ho festeggiato. Eri arrivato in
ufficio un’ora in ritardo, non so per cosa, avevi chiesto a me e al
numero dodici di farci trovare in sala riunioni, avevamo fatto un
briefing interno per una campagna pubblicitaria piccolina. Quel giorno
mi hai insegnato che anche le piccole cose hanno importanza nel nostro
campo. I dettagli, un punto, una virgola, il colore di una tenda sullo
sfondo e persino una piccola campagna pubblicitaria deve essere creata
con la stessa attenzione e importanza di quelle da migliaia di dollari.”
I suoi occhi tornano a guardarmi normalmente, il viso riprende colore e
l’infermiera torna con un carrello e una specializzanda. Edward
percepisce tutto ma continua a guardarmi, non sposta lo sguardo da me.
La specializzanda alza il camice di Edward fino al petto e controlla la
ferita.
“Bene signor Cullen, pare che siano saltati dei punti, devo ricucirla.
Non si preoccupi però, le anestetizzo la parte interessata e in cinque
minuti termino tutto.”
E’ un attimo, mi volto anche io e sgrano gli occhi. Il corpo di Edward è
fantastico. Tonico, gli addominali scolpiti, la pelle semi abbronzata e
liscia. Peccato per i lividi dell’incidente, la ferita che sanguina e
per quelle cicatrici sul petto.
“Continua a parlarmi Swan!” Dice a denti stretti mentre la dottoressa
prepara la siringa per l’anestesia locale. Sembra quella del dentista.
“E l’altra giornata buona?” Mormora per farmi continuare il racconto e
distrarlo. Sì, devo distrarmi anche io, dal sangue e dal corpo di
Edward, per fortuna è coperto dal bacino in giù o avrei seri problemi ad
affrontare il resto della giornata.
“L’altra giornata buona è la mia preferita. Stavamo lavorando sul caso
Newton, Thomàs aveva lasciato a me le sue cartelline, tu quella mattina
sembravi più calmo degli ultimi mesi.”
“E cosa è successo poi?”
“Ci siamo chiusi in sala riunioni per circa sei ore, pranzando con un
sandwich, abbiamo analizzato il cliente da cima a fondo, abbiamo
visionato video, siti web, ci siamo fatti portare delle foto delle
vetrine. Abbiamo lavorato in sintonia e mai, neppure per un secondo, hai
urlato con me, o sei stato scontroso o stronzo.”
“Non può essere stato sempre così brutto lavorare con me, Swan.” Dice a voce bassa.
“Solo alcune giornate non lo sono state, queste due le ricordo particolarmente.”
“La prima lo capisco, ma la seconda… cos’ha di così speciale?”
Arrossisco e scuoto la testa ma lui non è d’accordo con me. “Dimmelo.”
“Assolutamente no.”
“Dimmelo Swan.”
“Ho detto di no!”
“Mi sto facendo ricucire sotto i tuoi occhi, l’anestesia non fa effetto,
sento l’ago che entra e che esce dalla mia pelle e sono traumatizzato
dal sangue. Devi dirmelo.”
La dottoressa si ferma e si volta verso di me. Merda. Edward ha il volto sconvolto.
“Okay. Okay te lo dico, ma sei un dannato despota e ricattatore.”
“Lo so.” Mormora appena. “Ora dimmi perché ti ricordi quella giornata.”
“Perché alla fine delle nostre ore passate insieme Irina ci ha portato
un caffè a testa, mi hai battuto sulla spalla e hai detto “Ottimo lavoro
Swan!” poi hai sorriso. Ho pensato che avessi uno splendido sorriso e
che avrei voluto guardarlo ogni giorno. Ecco perché è così speciale
quella giornata.” Edward sgrana gli occhi e io sento le guance in
fiamme. Non parla per molti secondi, forse arriviamo a due minuti. La
dottoressa, nel frattempo, ha terminato di ricucirlo e sta applicando
una benda nuova.
“Ho zittito Edward Cullen. Mi merito un premio!” Mormoro per togliermi
dall’imbarazzo. La mia mano è stretta nella sua, me la sta distruggendo,
merda. Prima di andare a casa devo chiedere alle infermiere una pomata
per i lividi e un antidolorifico forte per reggermi in piedi domani.
La dottoressa si raccomanda ancora una volta con Edward di non muoversi,
di stare steso, di non agitarsi e di chiamare per qualsiasi necessità.
L’infermiera mi fa uscire per cambiargli il camice e ne approfitto per
prendere un caffè alle macchinette. Mi prendo più tempo del previsto, ho
bisogno di riordinare le idee. Ho detto qualcosa di cui fra qualche
ora, domani, dopodomani o fra qualche settimana potrei pentirmi. Ho teso
la mano al nemico.
In realtà, a voler essere sinceri, è da un po’ che tendo la mano al
nemico. Dovrei stare alla larga da Cullen invece finisco sempre per
dargli una mano. Che destino bastardo. Almeno potrei evitare di
confessare ciò che penso di bello di lui. Anche se il suo sorriso è
davvero uno dei suoi punti di forza, se non conoscessi il suo carattere
schifoso potrei innamorarmi di lui solo per i suoi occhi e per il suo
sorriso. Ma questo lo tengo per me.
Torno in camera, Edward ha gli occhi chiusi e il respiro calmo e
regolare. Bene, sta dormendo. Messaggio con Alice e Seth, quelli che al
momento hanno meno lavoro dentro la Cullenhale, controllo le mail e
facebook, poi ripongo il telefono nella tasca. Alzo gli occhi solo per
assicurarmi che Cullen stia bene, ma mi sta fissando. Non sta dormendo.
“E così, ho un bel sorriso.”
E ti pareva che non sorvolava. Ego maschile alle stelle.
Alzo le spalle, non ho la benché minima intenzione di dargli retta,
quindi riafferro il telefonino e apro il primo gioco a caso. Quiz, come
se avessi davvero la pazienza e la concentrazione adatta a rispondere.
“Pensi che sia stronzo, arrogante, presuntuoso e despota, eppure hai
notato il mio sorriso. Ti piace il mio sorriso.” Alzo gli occhi al cielo
e nella sua voce scopro una certa tensione. “Hai altre cose positive da
dirmi? Cos’altro apprezzi di me?” Sto per rispondergli di lasciar
stare, che è meglio non continuare quella conversazione, ma mi salva il
suo telefonino. Lo prendo dal comodino e glielo porgo. E’ Angela che ha
delle domande e degli aggiornamenti per lui. Sta al telefono più di
un’ora, tanto che mi decido a prendere il mio portatile per fare
qualcosa di produttivo, tipo finire il libro che ho cominciato. Quando
arriva il pranzo per Edward l’infermiera mi mostra un piatto in più, il
mio pranzo.
“Non si doveva disturbare, ho comprato un muffin in più in caffetteria stamattina!” Le sorrido.
“Si figuri, quelli della mensa hanno sbagliato a consegnare i vassoi, ce
ne sono due in più, li abbiamo divisi tra noi. Le fa bene mangiare un
piatto caldo!” La ringrazio e comincio a scoprire il pranzo del malato.
“Non mangiare questa roba, tu puoi andare al ristorante e avere il
meglio!” Borbotta a denti stretti. “No Angela, sto parlando con
Isabella. Sì, la signorina Swan mi sta facendo da infermiera personale!”
Sghignazza al telefono. “Oh non lo so, chiediglielo tu.” Sento i suoi
occhi fissi su di me e le mani iniziano a tremare mentre apro le posate
di plastica. Maledizione. “Ci sentiamo più tardi. Fai fare quelle
telefonate a Irina, dividiti il lavoro con Emmett e chiama quelli delle
fotografie per Newton. Dobbiamo rimandare l’incontro alla settimana
prossima. Conto su di te.”
“Povera Angela.”
“Perché?” Si acciglia.
“Con questa ultima frase ora impazzirà, come se non avesse abbastanza carne al fuoco.”
“Che vuoi dire?” Minestrina e tocchetti di carne al vapore con tanto di
verdurine lessate. L’odore non è per niente invitante e Edward guarda i
suoi piatti come se fossero delle bombe pronte ad esplodere. “Non la
mangio quella roba.” Scoppio a ridere della sua espressione inorridita.
“Gesù! Sei esilarante da convalescente! Dovevo fare un video e mostrarlo alla Cullenhale, nessuno ti avrebbe più temuto!”
“Non ti azzardare!” Alzo le mani con la forchetta e il coltello tra le dita.
“Mi vedi registrare per caso? Sto preparando il tuo pranzetto succulento!”
“Non fare la sarcastica. Dimmi cosa intendevi prima.”
“Angela ha sulle spalle il lavoro tuo e quello di Rosalie, lavora dalla
mattina alle sei fino alle undici e mezzo di sera. Già normalmente fa
gli straordinari, stamattina l’ho chiamata per sentire come stava e mi
ha urlato addosso che non aveva tempo. Di sicuro con quel “conto su di
te” non le hai messo nessuna soggezione!” Ridacchio.
“Faccio così paura?”
“Sì.” Rispondo piccata prima di scoppiare a ridere. “Perché nessuno di loro ti ha visto conciato così, a farti imboccare!”
“Simpatica. Odio la minestrina e odio le verdure bollite.”
“Odi altro di cui devo essere a conoscenza?” Alzo il sopracciglio verso di lui sarcastica.
“Odio che ti comporti così bene con me.” Arrossisco e abbasso gli occhi
sul piatto di minestrina afferrando, con l’altra mano, il cucchiaio di
plastica. “Perché lo fai?”
Ancora questa domanda. Finiranno mai di porgermela?
“Dovresti essere furiosa con me, dovresti starmi distante, detestarmi,
odiarmi così tanto da volermi spaccare la testa. Eppure sei qui a
prenderti cura di me perché non ho nessuno. Perché diavolo sei ancora
qui?”
Continuo a fissare la minestra nel suo piatto, prendo la bustina di
formaggio che hanno portato per me e la sciolgo nel brodo. Apro anche la
bustina di olio d’oliva per le verdure e ne aggiungo qualche goccia,
giusto per insaporire un po’ il tutto. Piccoli trucchetti che ho
imparato nel tempo e che hanno permesso a molti bambini di apprezzare la
minestrina. Lo ignoro e continuo a mescolare, sperando che anche il più
insignificante granello di formaggio si sciolga. Abbasso la spondina
del letto e mi siedo sulla porzione di materasso lasciata libera da
Edward, ho bisogno di essergli vicino per poterlo imboccare adesso.
“Non mi stai rispondendo e lo odio.” Mormora fissandomi. Lo sento il suo
sguardo che brucia la mia pelle. Lo so che odia le persone che non gli
rispondono, ma io non sopporto queste domande e odio profondamente le
persone che continuano a porgermi le stesse domande, all’infinito.
“Non mangerò finché non mi risponderai.” Lo guardo con un sopracciglio
alzato, si crede davvero nella posizione di potermi ricattare?
“Mangerai perché se no vado a cercare un imbuto qualsiasi e ti faccio
ingoiare ogni singola cosa che hai nei piatti a forza. E’ chiaro?”
“Non sono io il despota qua dentro, a quanto pare.”
Riesco a imboccargli qualche cucchiaio di minestra prima che riprenda a
parlare. Non l’ho mai sentito chiacchierare tanto come oggi.
“E’ buona per essere una minestra di ospedale.”
“Ho imparato un trucchetto, un po’ di parmigiano, un goccino di olio
d’oliva ed è mangiabile. Per lo meno. Quindi non fare storie, la finisci
tutta, perché ti assicuro che non ho trucchi per farti piacere le
verdure lessate!” Ridacchia ed è un suono davvero bello. Dovrebbe
ridere o sorridere più spesso, ma se glielo dicessi, probabilmente,
verrei linciata e poi presa in giro. Devo trattenere i miei pensieri.
Continuo a imboccarlo cercando di non pensare e non soffermarmi su
quanto sia intimo tutto quello che sta accadendo in questa stanza. Di
tanto in tanto si pulisce il mento con il tovagliolo che ha nella mano
sana, apre la bocca e intravedo la lingua mentre porto il cucchiaio alle
sue labbra. E’ eccitante. Se non fosse malato, se non fosse uno stronzo
ed un bastardo potrei anche saltargli addosso.
“A cosa stai pensando?” Parla con la bocca piena e per fortuna non sputacchia. Scoppio a ridere scuotendo la testa.
“La mamma non ti ha insegnato che non si parla con la bocca piena?” La
sua faccia diventa una smorfia di dolore e il ricordo dell’urlo di
stanotte torna prepotente a farmi accapponare la pelle. Dio, quanto sono
stupida! “Comunque pensavo che non ti ho mai sentito chiacchierare così
tanto, non pensavo fossi così loquace, solitamente in ufficio abbaiavi
ordini e dicevi sì e no due paroline. E’ strabiliante quante parole
riesci a mettere insieme e quanti discorsi porti avanti quando sei
costretto a stare in compagnia di una persona!” Cerco di cambiare
discorso velocemente, sperando che si rilassi e che cambino rotta anche i
suoi pensieri. Annuisce e continua a mangiare in silenzio. Io, che mi
sento in imbarazzo per aver detto una cosa tanto stupida, cerco di
riportare un po’ di serenità nella stanza. “Non ho detto che devi stare
zitto, ora, possiamo per esempio parlare del tuo menù di stasera, se ti
fanno scegliere. Cosa vorresti?” Non risponde. Maledizione! Appoggio il
piatto vuoto sul vassoio e sbuffo guardando Edward. “Va bene, ti concedo
una domanda.”
“Perché?” Borbotta.
“Perché sono stata una cretina e non so come farmi perdonare. Odio
vedere i musi, odio vedere la gente arrabbiata, non lo sopporto. Quindi
fammi una domanda a cui posso rispondere per farmi perdonare per la mia
uscita infelice di poco fa.” Rassegnata prendo l’altro piatto e condisco
le verdure e la carne con l’olio d’oliva, aggiungo il sale in bustina
che gli hanno portato e mi preparo con la forchetta per imboccarlo.
“Rispondimi alla domanda di prima.” Come immaginavo. Ho anche avuto
tempo di rifletterci, sono stata io a proporglielo, quindi ora devo per
forza di cose dirgli qualcosa. E siccome tra noi c’è un tacito accordo
di sincerità, nato stanotte, devo dirgli la verità.
“Sono ancora qui perché so cosa voglia dire stare in ospedale da sola,
ci sono passata e ho odiato ogni singolo secondo delle mie giornate. E’
per questo che come crediti extra durante il college ho scelto di fare
la volontaria in ospedale per qualche mese, oltre a essere stata
costretta dalla psicologa ad affrontare questi luoghi. Poi mi sentivo
utile, serena e i mesi sono diventati tanti, fino a far passare un anno.
Ho smesso di fare la volontaria solo perché dovevo laurearmi.” Prendo
un pezzo di carne e una carota e lo imbocco, mi godo le sue espressioni
disgustate e cerco di non ridere. “Quando ho accompagnato Jasper in
ospedale gli ho chiesto se la tua famiglia fosse stata avvisata, lui ha
risposto di no, da ingenua e cretina quale sono ho insisto per sapere se
voleva che lo facessi io, lui ha detto di no, che non era necessario e
si è lasciato scappare che non hai nessuno.” Sospiro e prendo un
profondo respiro. “Poi quando ci hanno dato notizie di Rosalie e di te
ancora non ci dicevano nulla sono rimasta con lui, al suo fianco, lo
vedevo distrutto e mi stavo seriamente preoccupando. Quando è arrivato
il chirurgo ero nello stato emotivo peggiore, ansiosa, preoccupata,
stanca… non ci ho pensato e per sapere qualcosa mi sono finta la tua
fidanzata. Jasper ha preso da parte il dottore, gli ha detto che non
saresti voluto restare in ospedale, che odiavi gli ospedali e che molto
probabilmente avresti avuto degli incubi per cui dovevano tenerti
sedato.”
“Che caro amico.” Mormora con astio finito di masticare. Lo ammonisco con lo sguardo.
“Siamo saliti in camera, si è seduto al tuo fianco, ti ha tenuto la
mano, te l’ha stretta senza mai lasciarla e sussurrava che non eri solo,
che c’era lui al tuo fianco, come sempre. E altre cose. Ho capito che
la situazione era delicata e che dovevo starmene zitta e aiutare un
amico. Fine della questione.”
“Per colpa di Jasper hai perso il lavoro. Non sei arrabbiata con lui?
Non sei arrabbiata con me perché ti ho licenziata? Perché sei qui a
farmi da balia quando potresti davvero startene al lavoro ad odiarmi e
lanciarmi maledizioni?”
Parlando ha finito ogni briciola che aveva sul piatto e a me,
stranamente, è passata la fame. Prendo lo stesso il mio piatto e lo
scoperchio. Riso bianco. Tutte le volte che l’ho mangiato mi si
intoppava nello stomaco e non riuscivo a finirlo. Dovrò accontentarmi,
odio sprecare il cibo.
“Avevi detto una domanda e io ti ho proposto di rispondermi a quella che
ti avevo fatto prima, non hai risposto a tutto. Rispondimi.”
“Non sono arrabbiata con Jasper, lui ha svolto il suo lavoro. Il
poliziotto fa posti di blocco, si alza a orari improponibili, va a letto
dopo giornate di lavoro infinite. E’ sempre sottoposto al rischio del
mestiere e aiuta i cittadini a vivere sereni. Non ce l’ho con Jasper,
lui ha solo svolto il suo lavoro. In più siamo diventati amici ed è
molto difficile che io mi arrabbi con i miei amici.” Mormoro dopo aver
ingoiato una forchettata di riso. E’ ancora più cattivo dell’ultima
volta che l’ho provato.
“E con me? Con me non sei furiosa?” Tengo gli occhi sul mio piatto.
“Sono stata arrabbiata con te, ho anche sperato che ti venisse il mal di
testa, un’influenza intestinale e qualche brufolo, ma non sono furiosa
con te. Non lo sono stata. Mai.”
“Non capisco, perché?” Alzo le spalle e ignoro la domanda. Non ho
intenzione di approfondire, direi di più di quello che sono disposta a
mettere sul piatto. “Non ignorare la domanda, ho capito come fai. Non lo
farai questa volta. Hai visto la gravità dei miei incubi, mi hai
imboccato, mi sono umiliato di fronte ai tuoi occhi. Dimmi perché sei
qui e non sei furiosa con me.”
La fame mi è passata completamente ma finisco le ultime due forchettate.
Appoggio il piatto, prendo posto sulla sedia su cui sono stata tutta la
notte, mi stringo il maglione addosso e accavallo le gambe. Il freddo è
tornato ad essere parte delle mie giornate. Ci metto un po’ a trovare
la forza di rispondere, ma lo faccio.
“Ci sono cose più gravi per cui essere furiosi nella vita, Edward. E
l’ho imparato a mie spese. Posso essere furiosa perché i fantasmi del
passato continuano a bussare alla porta quando vorrei che mi lasciassero
in pace, posso essere furiosa perché un cretino vi ha fatto fare un
incidente in cui avete entrambi rischiato la vita, posso essere furiosa
perché ci sono pazzi che sparano a padri di famiglia, posso essere
furiosa perché qualcuno non ha mantenuto con me la promessa della vita.
Posso essere furiosa per tutte queste motivazioni, non perché mi hai
licenziato in una giornata no e per colpa del mio ritardo. No, non sono
furiosa, sono un po’ arrabbiata, ti considero uno stronzo ma non sono
furiosa. E questo è anche il motivo per cui sono qui con te, invece di
essere a casa a maledirti, Edward. Anche se sei uno stronzo bastardo
presuntuoso e mi hai licenziata, rovinandomi la carriera, sei solo e
sono furiosa per questo. Quindi non ho intenzione di andarmene, perché
se mi cacci allora sarò furiosa con te e sarò furiosa con me stessa.”
Prendo il telefono tra le mani e comincio ad ignorarlo. Lui, per
fortuna, si chiude in un mutismo irreale, lasciando nella stanza un
silenzio carico di significato e tensione.
** Note di Aly
Buongiorno a tutte! Stamattina non ho tantissime cose da dire, se non quelle banali di sempre.
Vi ringrazio tutte, dalla prima all'ultima: voi che leggete in silenzio,
voi che aspettate con trepidazione l'aggiornamento, voi che recensite e
mi lasciate il vostro pensiero. Siete meravigliose.
Oggi scopriamo molto di più, tanto di più.
In realtà questa volta non ho solo una frase preferita, ma un bel
paragrafetto che ogni volta che mi capita di rileggerlo mi si stringe il
cuore.
Il mio pezzo preferito del capitolo precedente è il seguente:
Dal capitolo 5 di Grido nel silenzio:
“E così eccomi di nuovo qui. Sono di nuovo al tuo fianco, di nuovo
in un letto di ospedale. Tu non hai idea di quante volte io sia stato
seduto al tuo fianco mentre dormivi profondamente controllato dai
monitor. Non hai idea di quante volte volessi svegliarti scuotendoti e
dirti che sei uno stupido, che… Dio!” Si passa una mano che trema sulle
labbra e chiude gli occhi, stringendoli forte.
Non ho mai visto Jasper in una situazione del genere, non ho mai sentito
Jasper parlare di Edward o parlare con lui, a parte quel breve
intermezzo nella sala riunioni quando sono stata licenziata. Resto
sconvolta a fissare la scena.
“Un piano più sopra c’è Rosalie, sai quanto voglio bene a mia sorella,
eppure sono qui con te. Con te, maledizione. Mi farai morire di
crepacuore un giorno, senza saperlo.”
Le parole sono dure ma calde, non è un uomo freddo, non sta parlando
come se fosse un vecchio compagno di giochi perso per strada. C’è molto
di più tra loro, come ho sempre immaginato.
“Starò qui, finché non ti svegli. Starò qui. Non sei solo, Edward. Non
sei solo.” Gli occhi mi si inumidiscono e sento le lacrime premere e
spingere per venire fuori. Ho visto molte scene da pianto in ospedale e
fuori, ma questa mi tocca particolarmente. Jasper appoggia la mano su
quella di Edward e la stringe appena mormorando ancora tenue “Non sei
solo”.
Non ci sono molte spiegazioni su quello che ho riportato, tutte voi
avete ben chiare le emozioni che scorrono lungo queste righe. L'ansia di
Jasper, l'angoscia, la paura, il timore, l'affetto fraterno. E
dall'altra parte c'è Bella, testimone di questo momento intimo e
speciale, di un uomo che nonostante tutto è ancora lì a tenere la mano
ad un amico, che decide di essere lì per lui, per non farlo sentire
solo. Ci ho riflettuto a fondo e questo, purtroppo o per fortuna, è una
cosa che mi caratterizza. Non importa quanto una persona a cui ho voluto
un gran bene mi ferisce, quanto mi metta in un angolo, se poi sta male,
se soffre, se è solo in un momento difficile io spesso metto da parte
il mio orgoglio e mi siede accanto a lei... supportandola. Forse
sbaglio, forse dovrei essere più dura, forse dovrei metterci una pietra
sopra e basta, allontanandomi e evitando di rendermi così disponibile.
Lo so. Eppure continuo a comportarmi così, continuo a essere ferita e a
riprovarci infinite volte. Capita anche a voi?
Detto questo, vi lascio al capitolo, sicuramente più interessante delle mie riflessioni!
Buona giornata e, come sempre, buona lettura.
Aly **
“MAMMAAAAA!”
I timpani mi fanno male, ero così vicina alla sua bocca che il grido mi è
entrato dentro stordendomi. Le braccia non hanno più forza per tenerlo
fermo, le gambe non mi reggono, la testa vortica in una strana
confusione e il cuore sanguina, ancora una volta. Resto ferma,
nonostante tutto, per fermare il corpo di Edward dall’agitarsi. Non è
più solo una promessa ad un amico.
“Si sposti signorina, dobbiamo svegliarlo!”
Scuoto la testa ferma nella mia posizione. Jasper ha detto che non va
assolutamente svegliato quando ha gli incubi ed io ascolto lui. Lo
conosce, ho sentito le sue parole, me l’ha fatto promettere e io non lo
sveglio.
“Signorina, si sposti le ho detto.” Mi spinge con il suo corpo per farmi
spostare ma io non lo faccio; le gambe mi tremano ma non mi muovo.
“Edward, mi senti? Non sei solo. Ci sono io, non sei solo. Calmati.
Shhh. Calmati.” Dai suoi occhi sgorgano lacrime che non so come fermare,
dalle sue labbra ancora suoni e grida che mi spengono le energie. Ho
fatto una promessa, è vero, ma non è solo questo, vederlo così mi
annienta.
“Signorina si sposti!” Mi giro verso l’infermiera incenerendola con lo
sguardo. Lei tenta di fare il suo lavoro e io devo impedirglielo, con la
rabbia che sento dentro non lo vedo per niente difficile.
“Non mi sposto. Non si può sedare una persona due volte in un giorno, lo
so bene. Lei vuole svegliarlo e il suo migliore amico mi ha
assolutamente vietato di farlo quando ha gli incubi. Sono incubi, non è
dolore. Si deve calmare senza essere svegliato, ora se mi aiutate a
tenerlo fermo forse eviteremo che si fratturi qualcos’altro.”
L’infermiera sbuffa ma gli tiene ferme le gambe, mentre l’altra cerca di
tenere fermo il braccio ingessato. Io resto incollata sul suo busto.
“Shh. Va tutto bene. Sei qui con me. Non sei solo. Non sei solo. Mi
senti Edward? Non sei solo. Calmati. Respira e sentimi. Non sei solo.”
Ho visto Jasper ripeterglielo molte volte, credo che sia la cosa giusta
da fare. Me ne convinco solamente quando sento il suo corpo adagiarsi e
la sua bocca mormorare cose sconclusionate a bassa voce. Le lacrime
scorrono ancora libere sul suo corpo. Appoggio la mia mano sulla sua e
quando sente il mio tocco intreccia le mie dita con le sue. Non posso
muovermi ora, sono inchiodata qui. Mi faccio passare dei fazzolettini
dalle infermiere, gli asciugo il viso coperto di lacrime e gli bagno la
bocca con un po’ di acqua. Mi aiutano a sistemarlo sotto le coperte che
sono scivolate per colpa dei suoi movimenti e quando finalmente Edward è
a posto mi siedo anche io. Sfinita. Ecco come mi sento. Stanca e senza
difese. Rivivo la scena di poco fa un milione di volte nella mia testa, e
milioni di volte sento quel grido infinito, straziante.
“MAMMAAAAA!”
Un grido che mi porta indietro nel tempo, che mi condanna, senza
appello, a rivivere ogni istante passato. E’ come se non fossi mai
andata avanti, come se non fosse mai stato sepolto, dimenticato, chiuso
in un cassetto in fondo all’armadio della mia mente.
A rallentatore, in bianco e nero, mi passa davanti agli occhi la scena di un film tristissimo.
Un uomo che esce di corsa dalla macchina, lasciando la sua bambina sul
sedile passeggero raccomandandole di non muoversi, per nessun motivo.
L’uomo che corre disperatamente verso l’edificio che sta bruciando, da
cui si vedono fiamme altissime e fumo nero. Poi l’uomo non si vede più
per un’infinità di tempo. La bambina piange, urla da dentro la macchina,
ha capito che il padre è corso ad aiutare le persone che sono dentro la
casa, ma ha paura. L’uomo ricompare, portando tra le braccia una
bambina e aiutando una donna a camminare. La bambina ha gli occhi
spaventati, il viso coperto di fuliggine e le lacrime continuano a
scendere copiosamente sul volto. Ha paura. Trema. Ha freddo. L’uomo le
fa sedere sul marciapiede, chiama i soccorsi, si inginocchia a parlare
con le persone che ha appena salvato e non lo vede. Non vede l’uomo
incappucciato che si avvicina con un arma in mano. Quando si alza si
volta verso la sua bambina dentro la macchina e le sorride, cercando di
comunicarle che va tutto bene, ma la bambina urla, grida dentro l’auto,
perché lei l’uomo nero l’ha visto. E quando il padre si volta, l’uomo
nero muove le labbra, ma la bambina non sente alcun rumore, l’abitacolo è
intriso delle sue lacrime e colmo delle sue grida. Vorrebbe scendere
dalla macchina, gridare al padre di fare attenzione, di scappare, di
correre via insieme a lei, ma è chiusa dentro e urla, si dispera finché
un colpo, un rumore sordo, non esplode nell’aria spezzando ogni suono
attorno per un secondo. Un secondo infinito.
Un secondo lungo una vita.
Il grido della bambina è forte, acuto, disperato, angoscioso.
“PAPAAAAAAAAA’!”
Ma l’uomo è immobile sull’asfalto, l’uomo nero è corso via mentre le
sirene suonavano all’impazzata correndo ad aiutarli. La bambina sbatteva
le mani sul vetro, voleva uscire, correre dal suo papà, ma nessuno
riusciva a sentirla in mezzo a tutto quel frastuono. Solo l’amico di suo
papà, corso con la volante per liberare il traffico, si accorse di lei.
La fece scendere dall’auto per accompagnarla a casa, le diceva che era
sconvolta, che doveva calmarsi, ma lei non ci riusciva. Voleva solo
correre dal suo papà. Guardò l’uomo che la teneva chiusa tra le sue
braccia e con un ruggito come quello di un leone si liberò, attraversò
la strada di corsa, si inginocchiò vicino al corpo del suo papà e
cominciò a chiamarlo, a scuoterlo disperatamente.
“Papà! Papà! Papà rispondimi. Sono io. Sono io papà! Non ho paura ma rispondimi! Guardami papà. Sono qui. Sono qui papà!”
Ma l’uomo non fece in tempo a risponderle o lei non riuscì a sentire. I
medici l’allontanarono, trasportarono l’uomo in ambulanza e lei rimase
lì, con le mani intrise del sangue di suo padre e le lacrime congelate
sul volto.
“Che ci… fai tu qui?” La scena si interrompe, finalmente, grazie alla
voce roca e disturbata di Edward. Mi volto verso di lui e riesco a
sorridere appena.
“Ciao, come ti senti?” Non è passato molto da quando ha avuto l’incubo,
probabilmente deve essersi svegliato perché agitandosi si è fatto male.
“Cosa ci fai… qui?” Mi guardo attorno non sapendo cosa rispondere e
prendo un attimo di tempo. “Sei sorda forse? Cosa ci fai qui? Perché mi
stai tenendo la mano. PERCHE’ SEI QUI?” Alla fine urla e mi spavento. Ho
sempre odiato le persone che gridano, il rumore assordante mi fa paura,
ho cercato di vincere tutto ciò, ho cercato di andare avanti e ce
l’avevo fatta. Fino a poco fa. Le immagini che ho ripercorso, l’urlo
disperato di Edward, mi hanno abbattuto le difese costruite in anni e
anni di training autogeno. Respiro a fondo e provo a muovere le dita tra
le sue per accarezzarlo. Lui si accorge del contatto e le stacca
immediatamente, come se avesse preso la scossa. Sospiro dispiaciuta di
aver perso quella presa, forse non faceva bene solo a lui.
“Tu e Rosalie avete avuto un incidente e-”
“So cos’è successo. Non so perché tu sei qui!”
“Ero con Jasper ieri sera, l’ho accompagnato in ospedale e gli ho dato
il cambio quando è andato a riposare. I dottori hanno chiesto di restare
a farti assistenza, nel caso avessi bisogno di qualcosa.” Mi guarda
sprezzante.
“Non ho bisogno di niente, non ho bisogno di nessuno. Non ho bisogno di
te o di Jasper. Non ho bisogno di nessuno. Firmerò le carte per le
dimissioni appena il dottore passerà per la visita di routine. Me ne
torno a casa.”
Annuisco e mi alzo dalla sedia per sgranchirmi le gambe, stranamente
intorpidite. Metto via il computer dentro la borsa e prendo il maglione,
inizio ad avere un po’ di freddo.
“Vattene.”
“Certo, me ne vado. Quando il dottore ti dirà che puoi uscire e che non
hai bisogno di nessuno!” Non mi faccio certo comandare da lui qui
dentro.
“Non hai nessun diritto di stare qui! Vattene da sola o chiamo qualcuno.”
“Le infermiere intendi? Caro, loro sono contente di avere me qui, perché
ti agiti e ti muovi e i punti delle ferite saltano e se i punti saltano
loro devono riportarti in sala operatoria, pulirti e anestetizzarti,
ancora una volta. Se invece ci sono io qui loro ti controllano meno,
sanno che ti tengo fermo, possono andare da altri pazienti. Se chiami le
infermiere otterrai solo un rimprovero.”
“Tu mi terresti fermo? E come vediamo?” Dandomi dimostrazione di essere
in grado di muoversi si aggrappa con il braccio sano alla spondina del
letto e cerca di tirarsi su. Corro da lui spingendolo con una mano sulle
spalle, ricade come un foglio privo di vita sul letto.
“Cullen, sei stanco, ferito, imbottito di farmaci e stai male. Non metterti a fare la prova di forza con me.”
“E’ solo perché mi sono appena svegliato!”
“No! E’ perché ti sei svegliato dopo un incubo che ti ha privato di ogni
energia!” Mi lascio scappare. Mi chiudo la bocca con entrambe le mani e
chiudo gli occhi. Il danno è fatto.
“Vattene!”
“Edward-”
“Vattene! E di’ a Jasper di non tornare!”
“Perché ti comporti così?”
“Vattene!”
“Non me ne vado! Piantala di fare tutte queste storie, mettiti calmo e
riprendi a dormire oppure pensa a qualcosa, l’importante è che la
finisci con tutta ‘sta tiritera perché mi hai rotto le palle. Okay?
Sarai pure stato il mio capo ma ora sei un semplice paziente su un letto
d’ospedale che ha bisogno di compagnia e cure. Cerca di collaborare o
ti faccio legare al letto con le cinghie pur di non muoverti!”
“Ma chi diavolo pensi-”
“Non sono nessuno, hai ragione. Ma io sono dalla parte della ragione e
tu del torto. Sei qui e hai me e Jasper che ci prendiamo cura di te,
cerca di essere un minimo riconoscente!”
“Non vi devo niente.”
“A me certamente no. Su Jasper avrei qualche dubbio. Ma cocciuto come
sei non lo ammetterai mai, quindi pazienza. Ora su, mettiti a dormire.”
“Non sei-”
“Non sono nessuno, lo so.” Esco dalla camera per prendermi un tea caldo
alle macchinette, incontro le infermiere e le aggiorno su Edward e il
fatto che si è svegliato. Quando torno indietro si è calmato e steso
comodamente sul letto. Non mi rivolge la parola così riprendo il
computer e mi siedo sulla sedia a fianco del suo letto. Incomincio a
leggere da dove mi sono fermata, dentro ho ancora un miscuglio di
emozioni che mi tormentano ma devo sedarle e metterle a tacere. Avrò
tempo di prendermi cura di me stessa quando sarò a casa, sotto le
coperte con il mio cuscino tra le braccia e gli occhi chiusi. Non mi
rendo neppure conto di aver chiuso gli occhi e respirato a fondo. Me lo
fa notare Edward.
“Non ti senti bene?” Apro gli occhi di scatto e scuoto la testa.
“E’ tutto okay.” Mormoro tornando a ignorarlo. Pare che vada bene così, e
non sono nessuno per contraddirlo. Ma dopo altri due paragrafi torna a
parlarmi.
“Cosa ti ha raccontato Jasper?”
Alzo lo sguardo su di lui con il sopracciglio inarcato.
“Riguardo a cosa?”
“Me. Riguardo a me.” Pare arrabbiato, disperato, rassegnato.
“Veramente nulla.”
“Impossibile. Tu sei una donna, hai visto, osservato e fatto domande.
Cosa ti ha detto Jasper?” Come al solito mi fa incazzare e siccome non è
una grande serata devo contare fino a venti prima di rispondere.
“Non so con che razza di donne hai a che fare tu, ma non sono
un’impicciona perché non mi piace che la gente ficchi il naso negli
affari miei. Jasper non mi ha detto nulla.”
“Sai dei miei incubi però.” Mormora guardandomi fissa negli occhi. Non ha paura di ammettere le sue debolezze ora?
“Sì. Lo so perché poco fa ne hai avuto uno tremendo, ti sei agitato, ti
sei messo a urlare. Ho dovuto calmarti. So dei tuoi incubi perché Jasper
non voleva lasciarti da solo e mi sono proposta di aiutarlo, ma dovevo
sapere con cosa avevo a che fare. So solo questo.” Annuisce e abbassa lo
sguardo sui suoi piedi. Poi lo rialza su di me. No, non teme ciò che
gli posso dire.
“Ho detto qualcosa durante l’incubo?” Potrei mentirgli, dirgli di no e
far finta di niente. Sono capace a mentire. Poi però rivedo quella
bambina, ormai cresciuta, seduta sulla scomoda sedia di uno studio
privato, di fronte a lei una simpatica donna che le sorride.
“Lo sogno ancora dottoressa, lo sogno ogni notte. Mio fratello dice
che ho smesso di urlare, ma conosco i suoi occhi, mente, finge, come mia
madre. Tutti fingono con me, hanno paura di parlarmi, di dirmi la
verità. Hanno paura per me. Ma io non ho paura. Finché lo vedo sarà
sempre con me. Ho ragione dottoressa?”
“No Isabella, no. Se lo sogni va bene, ma gli incubi devono finire. Devi fare un patto con tuo fratello, deve dirti la verità.”
“L’ho fatto, ma lui mente. Mente sempre. E io lo odio così tanto.”
Sospiro e lo guardo negli occhi sbattendoli per cacciare l’immagine dalla testa.
“Sì, hai detto qualcosa. Hai urlato la parola mamma, il resto non l’ho
capito.” Chiude gli occhi e sospira, poi scuote la testa e stringe le
labbra.
“Merda!” Si lascia scappare.
“Non è un problema. La mia bocca è più cucita della tua, non lo dirò a nessuno.”
“Come no! E io ti credo. Sarebbe la vendetta perfetta, non credi? Ti
vendichi del tuo ex capo che ti ha licenziata per un ritardo.”
“In realtà mi hai licenziata per la mia boccaccia, la mia inettitudine professionale, la mia testardaggine, indisponenza-”
“Okay piantala! Mi ricordo cosa ho detto.”
“D’accordo allora riprendimi a lavorare!” Mi guarda e scoppia a ridere.
Ride davvero. E’ la prima volta che lo vedo ridere così e dovrei esserne
felice ma subito il viso si traduce in una smorfia di dolore. “Fai
piano e non ridere. Le ferite sull’addome e sul fianco sono ancora
fresche. Ho fatto tanto per tenerti fermo prima, ora non rovinare tutto o
ti mando il conto del mio fisioterapista!”
“E tu non farmi ridere!”
“E’ bello riuscire a farti ridere, oltre che a farti incazzare!”
“Sì, per quello hai una dote innata!” Mi sorride e non posso fare a meno
di ricambiare. Poi torniamo seri e lui si schiarisce la voce. “Senti,
per prima io-”.
“Non continuare. Non ne ho bisogno, davvero. Sono scuse inutili. Ti
capisco perfettamente. Anche io odierei qualcuno che è costretto a farmi
da balia, ma mi sono offerta, ed è inutile che mi guardi così, sono
pazza! Mi sono offerta io per aiutare Jasper, davvero!”
“Come sta Rosalie?”
“E’ acciaccata, ha una gamba ingessata e una ferita alla testa, ma sta
bene. Si riprenderà. Di certo non potete lavorare ora. Angela ha preso
in mano tutto quanto. Se la sta cavando bene. Per lo meno il primo
giorno è andato tutto secondo i piani.”
“Dovrò chiamarla per organizzare le cose, la prossima settimana devo
tornare in ufficio per-”. Scoppio a ridere e scuoto la testa.
“Senti ma sai dove ti trovi? Sei in ospedale bello. Ti hanno ricucito in
tre parti praticamente e tu pensi a tornare al lavoro! Sei
completamente frastornato dai medicinali, non ti reggi in piedi, hai
bisogno del sondino per fare pipì e vuoi lavorare. Ne hai per un mese e
mezzo qui.”
“Devo tornare al lavoro!”
“Angela e Emmett se la caveranno. Non preoccuparti di questo e pensa ad altro!”
“Non ho altro a cui pensare, il lavoro è tutto per me.”
“Nessuna donna? Che ne so… magari una biondona tutta tette a cui piace
strofinarsi su di te con quel suo miniabito attillato che appena si
muove mette in mostra ogni briciolo di pelle che ha?” Mi guarda confuso e
poi scuote la testa.
“Quando mi hai visto?”
“Oddio allora è vero!” Metto una mano davanti alla bocca spalancata.
“Quando?” Ringhia.
“Non ricordo bene. Un sabato sera comunque. E’ la tua donna?”
“E’ una che mi scopo.”
“Viva la finezza!”
“E’ quello che è per me. Non illudo nessuno.”
“Giusto!” Poi mi viene in mente una cosa e scoppio a ridere. Mi chiede
cosa io abbia e quando mi calmo alzo il volto, gli sorrido ammiccante e
poi gli faccio l’occhiolino. “Per il chirurgo che ti ha operato e per il
medico che ti segue io sono la tua fidanzata!” Riprendo a ridere della
sua faccia sconvolta e non riesco a fermarmi. “Non volevano parlare
delle tue condizioni né con me né con Jasper. Lui ha dovuto usare il suo
distintivo ed io ho inventato la prima scusa che mi è venuta in mente.
Ho pensato che quando l’avresti saputo ti saresti incazzato così tanto
da tirare giù il soffitto, ma vedo che la stai prendendo con filosofia!”
Mi brucia con un’occhiata delle sue e ridacchio appena, poi torno a dare
attenzione al mio computer ignorando lui. Forse dovrei continuare a
fare conversazione, oppure alzarmi e lasciarlo solo nella sua stanza per
un po’, giusto finché non si riaddormenta, ma non saprei dove andare e
non ho neanche tanta voglia di alzarmi. Tutti i suoi pugni iniziano a
farsi sentire.
“Ascolta Isabella… Vorrei che quello che è successo qui dentro non
uscisse fuori da questa stanza. Nessuno deve sapere… nessuno!” Alzo lo
sguardo su di lui dopo aver sentito il mio nome, ma non mi guarda
preferendo invece osservare un punto non ben definito sul muro
dall’altra parte della stanza.
“Ti ho già detto che ho la bocca cucita. Non ti fidi?”
“Ho imparato a non fidarmi della gente tanto tempo fa. Non avercela, non sei tu è solo…”
“Lo so. Ti capisco.” Annuisce e poi chiude gli occhi, probabilmente per
non dover parlare oltre. Torno al mio libro e leggo una frase sola prima
di rialzare lo sguardo su di lui. E’ fermo ancora in quella posizione e
mi chiedo cosa debba aver passato per essere in questa situazione. Non
si fida di nessuno. Non ha nessuno al suo fianco. Non ha una donna, non
ha amici, tratta tutti come se fossero delle pezze da piedi ed è più
velenoso di una vipera. Eppure è un genio nel suo campo,
professionalmente potrebbe essere uno dei migliori in circolazione,
potrebbe scalare il successo anche senza l’aiuto di nessuno, ed è un
uomo davvero attraente. Ma nessuno deve stare solo. Nessuno, l’ho
imparato a mie spese.
“Dovresti parlare con Jasper.” Mi lascio scappare osservandolo mentre
spalanca gli occhi verso di me. “Sì, dovresti prenderti del tempo per
parlare con lui, per ricucire tutto quello che c’era un tempo, per
sfogarti, per avere qualcuno al tuo fianco, un amico. Dovresti farlo.”
“Tu non sai nulla, non puoi dirmi cosa è meglio per me.”
“Tu credi io non sappia nulla, ma quello che so mi basta per capire che
siamo della stessa pasta, con un passato in comune, con lo stesso
carattere. Solo che io ho cambiato rotta prima di te. Devi parlare con
Jasper, frequentarlo fuori dal lavoro e riprendere l’amicizia con lui.
Secondo me diventeresti meno stronzo!”
“Non sai cosa dici. Jasper mi ha mollato nel bel mezzo del mio tormento anni fa. Non ho bisogno di lui.”
Lo scruto ancora un po’ e poi scuoto la testa, convinta di ciò che sto facendo, di quello che dico.
“No, tu non sai cosa stai facendo. Jasper non ti ha per niente lasciato
in disparte. Si è allontanato perché non gli piaceva la persona che sei
diventato ma… Beh non spetta me a dirtelo. Parlaci, dovresti davvero
parlarci.”
“No, ora tu mi dici cosa sai!” Ringhia incazzato.
“So solo che è rimasto qui tutto il tempo a tenerti la mano, mentre sua
sorella è nello stesso ospedale solo un piano più su. So che ha ripetuto
all’infinito che non sei solo, che lui c’è e c’è sempre stato. E so che
non è la prima volta che finisci in ospedale e che lui è con te.”
“Come lo sai?” La rabbia e lo stupore si alternano sul suo volto.
“L’ho capito. Il dottore ha detto che hai un qualcosa a livello di una
vecchia cicatrice, devono approfondire le analisi, Jasper sembrava
saperlo e non era per niente sorpreso. Poi siamo saliti qui, si è messo a
piangere come una femminuccia e ti ha stretto la mano tutto il tempo.
Ha detto che un giorno lo farai morire di crepacuore senza neanche
saperlo e che è ancora una volta al tuo fianco mentre tu stai male.
Quindi… ho dedotto che sia successo altro.”
“Una donna astuta!” Mormora sarcastico guardando altrove. “Ma questi sono fatti nostri.”
“Certo. Io ti consiglio solo di parlare con lui e ritrovare il vostro
rapporto. Perderlo è stata una delle cazzate più grandi che potessi
fare.”
“No, ne ho fatte ben altre. Questo mi ha permesso di salvare lui da una brutta strada.”
“Tu credi, ma penso che sia sempre stato al tuo fianco anche se non lo
sapevi. Questi però, come mi hai fatto notare, non sono fatti miei. Ora
cerca di dormire.”
Mi rimetto a leggere.
In realtà faccio fatica a concentrarmi, mi sono sempre vantata di
riuscire a estraniarmi dal mondo quando avevo un libro tra le mani ma in
questa stanza, qui con lui, mi sento a disagio e non riesco a liberarmi
del peso sulle spalle che sento. Non sono a mio agio. Non riesco a
capire il senso della frase fino in fondo e devo tornare a leggerla una
seconda volta. Di questo passo per finire il libro ci metterò secoli.
Non mi è mai capitato. In quel momento il telefono mi vibra nella tasca.
Chi diavolo è a quest’ora?
Jasper. Guardo verso Edward e lo trovo a osservare un punto fuori dalla finestra, okay è sveglio, posso rispondere.
“Pronto?”
“Ciao, come va?”
“Non dovresti essere a dormire tu?”
“La centrale mi ha chiamato per un’emergenza venti minuti fa. Sono sul
posto di un incidente. Volevo sapere come stava andando con Edward.”
“Bene.”
“Bella, non raccontarmi stronzate!” Lancio un’occhiata verso l’allettato e lo scopro a fissarmi.
“Okay, ha avuto un incubo più di un’ora fa, non mi avevi detto che il
tuo amico era l’uomo roccia dei fantastici quattro. Eravamo in tre a
tenerlo fermo, ma pare tutto a posto.”
“Ora dorme?”
“No, mi sta fissando con uno sguardo incazzato perché ti sto raccontando
i fatti suoi. E mi diverto un mondo a farlo incazzare ora che non è più
il mio capo!” Ridacchio e Jasper sembra più tranquillo, mentre Edward
si imbroncia.
“Vorrei non dovertelo chiedere.”
“Jasper, per favore… siamo amici, sai che puoi chiedermi ciò che vuoi.”
“Puoi stare con lui fino alle cinque? Poi io farò la notte.”
“Jasper, devo lavorare!”
“Ti pago la giornata che perdi, per favore!” Sciolgo i capelli dal
fermaglio e ci passo in mezzo le mani. In che diavolo di situazione sono
andata a impegolarmi. Cazzo! E’ fuori discussione, Bruce mi licenzia.
“Non posso dare un preavviso di due ore a Bruce, quello mi licenzia!”
“Per favore Bella!”
“Senti Jasper, te lo dico con il cuore, il tuo amico qui poco sopporta
la mia presenza e non credo affatto che con questa notizia farà i salti
di gioia. Non posso perdere anche questo lavoro!”
“Non avevi fatto la volontaria in ospedale?”
“Jasper, non ricattarmi. E’ stato tempo fa, è stato perché la mia
psicologa mi ha obbligata e perché mi servivano crediti extra. Non
entravo in ospedale da secoli prima di quella volta. Non ricattarmi.
Perderei il lavoro.”
“Chiamo io Bruce, non perderai il lavoro. Grazie Bella! Devo andare, salutami Edward.”
“Jasper! Jasper non ti azzardare a-” Stacco l’orecchio dal telefono e
osservo lo schermo. Ha messo giù. Mi ha incastrata e ha messo giù. Che
stronzo. “Lo uccido. Lo strozzo con le mie mani. Lo faccio diventare un
polpettone con tutta la divisa. Sto stronzo!”
“Che succede?”
Mi ero dimenticata, per un attimo, di essere in camera con Edward. E’ un destino infame quello che manovra la mia vita.
“Jasper non ha riposato, è stato chiamato dalla centrale per
un’emergenza, di conseguenza mi ha chiesto di restare qui con te fino
alle cinque, di pomeriggio.” Lo guardo mentre sul suo volto si disegnano
le rughe di ira. “E’ inutile che ti incazzi. Mi ricatta, lo stronzo.
Chiamerà lui Bruce con una scusa, spero più che valida, anche se sono
certa che perderò il lavoro. Lo strozzo.”
“Perché lo fai?” Di nuovo questa domanda. Ma non posso dirgli che mi
dispiace che sia solo, non posso dirgli che so questa cosa, che ho
capito che non ha più una famiglia, che non ha amici e che è solo. Non
posso. Gli ho detto che non so nulla, ho mentito per non doverlo sentire
urlare. Ora non posso proprio dirgli la verità.
“Perché ho fatto la volontaria in ospedale a ventidue anni e ho sempre
avuto quest’aria da crocerossina. Jasper sa premere nei punti giusti.”
“No, c’è dell’altro. E tu non mi stai raccontando la verità.” Scrollo le
spalle e torno a dare attenzione al mio libro. Questa volta riesco a
concentrarmi di più e riesco a leggere una ventina di pagine. Quando
alzo gli occhi per vedere se Edward dorme lo trovo con gli occhi aperti
sul soffitto.
“Non hai sonno?” Gli domando a voce bassa.
“Non ho mai dormito molto, da ieri notte ho dormito più del solito. E’ strano per me.”
“Non dormi perché gli incubi ti disturbano?” Scuote la testa e vedendo
che non mi risponde torno a leggere. La concentrazione è di nuovo
sparita. Ho la schiena che mi fa male, vorrei stendere le gambe e sento
dolore ai fianchi. Maledizione.
In ospedale dovrebbero sempre mettere una sedia a sdraio invece che
queste sedie di ferro scomode, chi fa assistenza ad un parente si
distrugge la schiena stando seduto qui per più di due ore. Un parente.
Io sono qui per uno che mi ha licenziato e di cui conosco ben poco.
Perché diavolo sono qui?
“Non dormo da quando avevo undici anni. Ho iniziato ad avere gli incubi a
quell’età e la paura di soffrire per i miei sogni mi ha sempre impedito
di dormire. Mi stanco, mi distruggo ma riesco a riposare solo un paio
di ore per notte, prima di svegliarmi. Odio gli incubi. Odio sognare.”
Ha solo sussurrato il suo discorso, ma lo sento perfettamente e le sue
parole mi colpiscono. Ha ragione Jasper, abbiamo più cose in comune di
quanto pensiamo.
“Il primo incubo era così reale, così tangibile che hanno dovuto sedarmi
per un giorno intero.” Dice ancora. Non so perché si stia aprendo con
me, non so neanche perché non lo fermo. Io non voglio sapere queste
cose, non voglio ascoltarlo mentre mi racconta della sua vita. Non
posso. Riapre vecchie ferite, vecchi cassetti ormai pieni di polvere che
fanno male, fanno così male che sento già le lacrime salirmi agli
occhi.
“Ecco perché non dormo. Non mi piace dormire. Odio sognare, odio svegliarmi sudato e agitato e odio rivivere il passato.”
Ti capisco, vorrei dire, so cosa vuol dire, gli direi. Invece fisso lo schermo di fronte a me quasi in trance.
“Il primo incubo l’ho avuto quando avevo otto anni. Mi sono svegliata
urlando, ho svegliato mia madre e mio fratello che sono corsi da me
pieni di paura. Hanno cercato di rassicurarmi, di tenermi al caldo
perché battevo i denti, ma non capivano. Non capivano che non avevo
freddo, ero terrorizzata. Avevo solo otto anni e rivedevo quella scena…
Non importa. Avevo solo otto anni. Ogni notte tenevo gli occhi aperti,
la luce accesa sul comodino e facevo di tutto per restare sveglia, anche
se la stanchezza era tanta. Poi quando non ce la facevo più dormivo. Ma
gli incubi venivano a trovarmi dopo poche ore e dovevo ricominciare
tutto daccapo.”
Lo sento respirare a fatica.
“Perché sei qui?” Mormora ancora e io non so cosa rispondergli. Abbiamo
detto più di quanto era necessario, so che neppure lui sa niente di me,
ma se continuiamo con questo ritmo stanotte ci racconteremo tutto. E io
non posso. Ma non voglio neppure essere una bugiarda.
“Perché nessuno deve stare solo Edward. Jasper mi ha detto che non hai
nessuno, so come ci si sente, so cosa voglia dire. Qui nessuno deve
stare solo. Ecco perché sono qui.”
“Ti ho distrutto la carriera.”
“Sì, l’hai fatto. Ma questo non vuol dire che io non abbia sbagliato. Ho
imparato tempo fa che ognuno deve prendersi le proprie responsabilità,
io l’ho fatto. Non ti porto rancore, forse sono un po’ arrabbiata ma non
cambia il fatto che tu sia solo e che deve esserci qualcuno qui con te.
Soprattutto durante i tuoi incubi.”
“Non voglio più dormire.”
“L’ho detto tante volte anche io. Poi però ho trovato la pace e riesco a
riposare bene ogni notte. Per questo devi farti degli amici, devi
ricominciare a frequentare Jasper, a sfogarti, dormirai meglio e gli
incubi spariranno per un po’. Sarà tutto più semplice.”
“Niente lo è.”
“Lo sarà. Chiuderai tutto in un armadio, lo coprirai con un telo bianco e
lo lascerai lì dentro per giorni, settimane, mesi. Poi saprai che è lì,
ma è nascosto. Non ti tortureranno gli incubi per settimane e per
interi mesi. Sarà più facile, sarà più semplice.”
“Lo credi davvero?”
“Lo so.” Mormoro distratta.
Guardo ancora lo schermo davanti a me senza più parlare, nella mente
solo l’immagine di una bambina seduta dentro una macchina mentre guarda
l’ambulanza portare via suo padre. Le mani sono ancora sporche di
sangue, le grida si espandono dentro l’auto, il pianto è così acuto e
disperato che nessuno è in grado di fermarlo. L’amico di suo padre cerca
di tenerla ferma ma lei vuole scappare, vuole correre dal suo papà.
La bambina è seduta su una sedia di ferro, i corridoi sono tutti
bianchi, la gente passa velocemente, alcuni cercano di parlarle ma lei
vuole solo la sua mamma. Il suo papà è dentro a qualche stanza, senza
che lei possa vederlo, suo fratello è ancora a scuola, la sua mamma è al
lavoro. Lei è ferma lì, immobile. Sente un grande freddo ma non vuole
dire niente, vuole solo un abbraccio, vuole vedere suo papà correrle
incontro e dirle quanto è bella, vuole sentire da sua mamma che andrà
tutto bene, vuole intrecciare le dita di suo fratello con le sue.
La sua mamma arriva, gli occhi sono rossi, le guance sono piene di
lacrime, stringe la mano di suo fratello mentre corrono lungo il
corridoio bianco. La bambina non ce la fa ad alzarsi in piedi, le gambe
sono così fredde. Un collega del suo papà si ferma a parlare con la
mamma, il bambino corre incontro alla sorella, si siede al suo fianco e
l’abbraccia forte. Le bacia la testa come faceva sempre il suo papà. La
mamma si mette a piangere, singhiozza e grida nel silenzio di quel
corridoio, la bambina chiude gli occhi forte, è così stanca di tutti
quelle urla. L’amico del suo papà stringe la mamma e l’abbraccia, viene
accompagnata alla sedia di fianco alla bambina, la prende in braccio e
la stringe forte. L’abbraccio di suo fratello era più caldo, più
consolatorio, più rassicurante. La mamma si sta aggrappando alla bambina
per non cedere, ma non sa che la bambina non ha più forze, neanche per
dire ciao. Poi il dottore esce da una porta a vetri opachi, la mamma la
lascia seduta sulla sedia, corre dall’uomo con il camice verde, piange,
piange tanto la sua mamma. Viene accompagnata in una stanza lontano da
loro e torna solo dopo molto tempo. I due bambini si stringono la mano,
il sangue sulle mani della bambina oramai è secco, ha bisogno di un
bagno caldo ma non vuole allontanarsi dal suo papà.
“Ti voglio bene!” Dice piano suo fratello. “Sei stata forte. Sei stata
brava. Fra poco andiamo a casa.” Ma quel poco che ha detto suo fratello
si trasforma in un tempo indefinito. Quando l’amico di papà li
accompagna a casa, la bambina si accorge che stanno andando dalla loro
vicina. La mamma non è con loro. La mamma non torna a casa con loro. La
bambina non ha fame, non mangia, ma la vicina di casa si prende cura di
lei, le lava le mani, la faccia, le cambia i vestiti. E’ sempre stata
una brava donna, una buona amica per la sua famiglia. Lei e suo fratello
dormono vicini, nello stesso letto, ma la bambina non vuole chiudere
gli occhi. Così suo fratello le canta una canzoncina, quella che suo
papà le sussurrava ogni volta per farla addormentare. Si stringono
forte, non si lasciano andare e quando la mattina aprono gli occhi sono
ancora vicini, si sorreggono a vicenda, lui più grande di lei, lei più
forte di lui.
Il cassetto dei ricordi è stato aperto, è stato forzato e la sua mente
viaggia a velocità della luce. Vorrebbe che si fermassero le immagini,
vorrebbe che si potesse cliccare sopra il tasto stop, ma è così
difficile.
“Isabella, stai piangendo.”
Sì, lo so anche io, sto piangendo. Dopo tanto tempo le lacrime tornano
sui miei occhi, lungo le mie guance. Piango, ancora una volta. Piango e
non riesco a fermarmi. Mi asciugo le lacrime sulle guance con il
maglione e cerco di respirare a fondo.
“E’ solo questo maledetto libro.” Sussurro non staccando gli occhi dallo schermo.
Ma lui lo sa, sospira un paio di volte per bloccare le domande che
nascono nella sua gola. Lo sa che non è il libro, capisce che c’è ben
altro. Lo sa perché abbiamo un passato in comune, qualcosa che è
difficile da seppellire.
** Note di Aly
Buongiorno a tutte.
Vorrei passare oltre e non scrivere nulla nelle note, ma non è possibile, perchè non sarei io.
Decisamente queste giornate sono difficili, per molti. Ho pensato di
pubblicare l'aggiornamento lunedì per allietare un po' le nostre menti e
pensare a qualcosa di diverso da quello che sta accadendo attorno a
noi... ma non l'ho fatto, ed ora un po' me ne pento. E' come se mi fossi
fatta frenare da questo, è come se mi avessero, per qualche momento,
impedito di pensare a cose belle della vita. E così è come se avessero
vinto loro. Non farò della retorica e non scriverò di quanto sia stato
difficile quella notte attaccata alla televisione, di quante lacrime
represse ho dovuto mandare giù... credo che sia un po' il sentimento di
ognuno di noi. Non solo per venerdì notte, ma per tutto quello che sta
accadendo attorno a noi, che ci distrugge, in qualche modo, il futuro e
le nostre libertà.
Avrei dovuto pubblicare lunedì, come forma di protesta, come libertà di
fare ciò che mi piace, come diritto al divertimento... e invece me ne
sono stata a riflettere... e non è uscito granchè, solo senso di
impotenza.
Quindi oggi posto il capitolo, pentendomi di non averlo fatto prima e
scusandomi con tutti voi. Quando succede una tragedia del genere è come
se mi spegnessi per un po' ed ho bisogno di riprendermi, sono troppo
sensibile alle volte.
Ora però andiamo avanti, guardiamo oltre, teniamoci saldi i nostri
valori e le nostre libertà, i nostri diritti, i nostri piaceri...
continuiamo a ridere, giocare, scherzare, leggere, cantare e ballare...
abbiamo bisogno di felicità e di un pizzico di fantasia, tralasciamo per
un attimo la cruda realtà che ci circonda e immergiamoci dentro a un
libro, dentro a qualche storia... pensiamo ad altro. Perchè continuare a
stare male, a riflettere, a piangere, ad aver paura non fa altro che
indebolirci... e non dobbiamo lasciarli vincere.
In questo spero di aiutarvi con questo capitolo, anche se non è per
niente divertente e forse non è il capitolo giusto dopo queste note, non
importa, è solo fantasia, è solo una storia... che magari vi farà
pensare ad altro e questo è il nostro obiettivo.
La mia frase preferita dello scorso capitolo è la seguente:
(Dal capitolo 4 di Grido nel silenzio)
Nessuno dei presenti sa chi io sia, nonostante le testate
giornalistiche di prima pagina, nonostante i notiziari e il circo
mediatico che è girato attorno alla mia vita per anni. Nessuno
all’interno di questa sala riunioni può sapere che mio padre non ha
fatto in tempo a insegnarmi nulla. Ma io sorrido e fingo, mento come
sempre, perché è più facile far finta che non sia mai esistito il mio
passato piuttosto che guardare in faccia la realtà e fare i conti con
gli sguardi compassionevoli, ancora una volta.
La frase, ovviamente, si spiega da sola. Molte di voi avranno già in
mente cosa possa essere successo a Bella, le dinamiche, i sentimenti, il
dolore verrà tutto analizzato nei prossimi capitoli.
Perchè ho scelto questa frase?
Per molti motivi, come sempre. Ho immaginato come possa sentirsi una
bambina a vedersi sul giornale senza capire chi ce l'ha sbattuta, da chi
hanno ricevuto il permesso di manipolare così la sua vita, le sue
emozioni, la sua storia. Il circo mediatico che ogni volta si leva su
dopo una tragedia è quello che permette a gente lontana di capire,
conoscere e ficcanasare, il più delle volte. Ma ci siamo mai fermati a
pensare cosa provano i diretti interessati? Cosa sia per loro vedersi
ogni mattina sul giornale?
Me lo sono chiesta più volte. E il "Non rispetto" per il dolore è ciò che mi fa stare peggio quando leggo qualche notizia.
Non vado troppo nel profondo, perchè se no vi tolgo la suspance dei prossimi capitoli, ma l'ultima frase dice molte cose.
Come si fa ad andare avanti? Davvero il tempo guarisce ogni ferita?
Davvero tutto passa? Sì e no. Tutto passa, certo, sia i momenti belli
che quelli brutti, ma resta sempre il ricordo in un angolo della tua
mente. Da quello non puoi scappare. Non ti puoi nascondere. Puoi non
pensarci, puoi non parlarne... ma sarà sempre lì, e quando meno te lo
aspetti ritornerà fuori. E allora sorridi, fingi, menti... per prima
cosa menti a te stessa. Ti dici che va tutto bene che... sei forte, per
non piangere, abbatterti e ricominciare tutto da capo.
Ecco i miei motivi. Sono reali, come le mie emozioni e in qualche modo la storia è mia anche in questo.
Vi lascio al capitolo, ho parlato anche troppo.
Grazie a tutte per continuare la lettura.
Buona lettura e, come sempre, buona giornata.
Aly**
Ho perso il conto dei giorni che sono
passati dalla riunione alla Cullenhale, la caffetteria non è stata più
luogo di incontri con i miei ex capi, per fortuna, ma di tanto in tanto
Emmett e gli altri passavano a farmi visita durante la pausa pranzo. Ci
voleva del tempo per arrivare fin lì, ma non gli importava granché. A me
importava. Non volevo che perdessero il posto per la mia compagnia,
potevamo vederci la sera nel mio appartamento, come al solito. Ma
nonostante tutte le mie sfuriate non mi hanno mai presa in
considerazione.
Andrà bene così.
Dicevo, non so quanti giorni siano passati da quel pomeriggio, ma
Rosalie si è fatta dare il mio numero di cellulare da Jasper e di tanto
in tanto mi aggiornava su certi progetti, mi chiamava per sapere come
avrei pensato io una certa campagna o che paio di scarpe preferivo sotto
un determinato vestito. Non so che diavolo le prendesse, ma passavamo
ore al telefono finito il mio turno alla caffetteria. Non mi dispiaceva,
però. Ho scoperto che Rosalie Hale è una persona meravigliosa, sotto la
scorza dura che utilizza per proteggersi.
Così la prima volta che ne ho avuto l’occasione l’ho invitata a casa
mia, in una di quelle serate in compagnia di una pizza, amici, gelato e
tante birre.
Ha storto il naso quando le ho detto che ci sarebbero stati alcuni dei
suoi dipendenti, ma ho giocato la carta di Jasper e del fatto che stava
cercando di fare colpo su Alice e lei non doveva perderselo. Ho vinto
quella partita e la sera dopo si è presentata con una torta di
cioccolato fondente e mandorle, penso di averla amata in quel momento.
Nel gruppo si era formato un certo imbarazzo, nessuno di loro si
aspettava di incontrare il proprio capo in una serata tra amici; più
volte ho ignorato le occhiatacce di Alice e di Emmett, ma quando Rosalie
si è cacciata le scarpe e si è sciolta i capelli, appoggiando i piedi
sulla sedia di Emmett e bevendo la birra direttamente dalla bottiglia
tutto è stato più semplice. Non si è parlato di lavoro, ma di viaggi, di
esperienze, di avventure passate. E’ stato meraviglioso ridere e stare
in compagnia con loro, mi sentivo soddisfatta di aver messo in piedi un
bel gruppo di persone accanto a me. Quella sera Jasper aveva fatto di
tutto per farsi notare da Alice, le si era seduto di fianco, aveva più
volte sfiorato il suo braccio prendendo le cose sul tavolo, aveva
involontariamente fatto cadere la forchetta per poi recuperarla
appoggiando il viso sul braccio di Alice nel piegarsi. Mosse che
notavamo tutti ma che evitavamo di contestare o prendere in giro. Emmett
era concentrato a guardare i piedi di Rosalie sulla sua sedia, Angela
osservava Seth mentre mandava messaggini a qualcuno, io parlavo con
Rosalie di un viaggio in Italia.
Alla fine della serata Alice era rossa come un pomodoro per
l’eccitazione trattenuta, la conosco bene, Jasper è scappato a causa di
una chiamata urgente, Emmett ha riaccompagnato Angela e Seth a casa,
dato che passava per la strada dove abitavano e Rosalie è rimasta ad
aiutarmi a sistemare. E’ andata via alle due e mezza ringraziandomi per
quella splendida cena.
Non potevo assolutamente non replicare, eravamo stati troppo bene. La
settimana seguente li ho invitati nuovamente. Non ci sono state repliche
questa volta, Rosalie ha portato una nuova torta, Emmett le birre,
Angela e Alice il gelato e Jasper le pizze. Seth un gioco di società.
Abbiamo riso fino allo sfinimento giocando a monopoli, nessuno si
rendeva conto che le ore passavano, fino a quando il telefono di Jasper
non squillò tra le nostre risate. Un’altra emergenza. Continuare in quel
momento sarebbe stato impossibile, era Jazz quello che stava perdendo e
che, di conseguenza, faceva il burlone. Sistemammo tutto e organizzammo
la serata per la settimana seguente.
Il lunedì Rosalie mi chiamò chiedendomi di visionare la posta
elettronica e di farle sapere qualche idea per il mercoledì, perché
aveva troppo lavoro e non sapeva dove iniziare con questo nuovo cliente.
Aveva scansionato ogni documento e gli appunti presi durante il primo
briefing con gli amministratori della società e me li aveva spediti.
L’idea giunse martedì sera mentre lavavo i piatti, lasciai tutto nel
lavello e mi misi a disegnare qualche schizzo e a tracciare una mappa di
idee.
Il mercoledì sera dovevamo vederci a casa mia, avevamo anticipato
l’orario in modo che potessimo finire la partita a monopoli prima che
Jasper fosse chiamato per qualche emergenza. Arrivarono tutti, tranne
Rosalie che aveva scritto di avere una riunione che si sarebbe protratta
per una mezzora in più. Quando però l’attesa divenne di due ore
scongelammo le pizze senza di lei.
Stavo tagliando le fette con la rotella quando il cellulare di Jasper iniziò a suonare.
“Non è possibile!” Urlò Emmett.
“Infatti” Gli diede man forte Seth.
“Dillo che non vuoi stare qui, così non ti invitiamo!” Scherzò Angela.
Alice stava zitta e mordicchiava la sua fetta di pizza, io mi ero
bloccata. Non so perché ma avevo uno strano presentimento.
“Sì? Sì, sono l’agente Hale. Certo, mi dica.” L’espressione del suo
volto la diceva lunga. Non era una semplice emergenza. Avevo ragione. Il
sesto senso per i guai l’ho sempre avuto, fin da quando ero piccola e
mamma entrava in camera mia con quello sguardo furente ed io correvo per
scappare dalla sua ira. “Certo. Certo. Ho capito. Arrivo subito!” Mise
in tasca il telefono, prese il giubbino dalla sedia e mi guardò dritta
negli occhi, ignorando tutti gli altri.
“Non è lavoro, vero?” Mormorai a bassa voce.
“No, Rosalie e Edward hanno avuto un incidente con l’auto che li
accompagnava. Devo andare in ospedale. James è sul luogo dell’incidente e
mi ha fatto chiamare dai soccorsi, ovviamente non mi possono dire nulla
per telefono. Mia madre e mio padre sono già stati chiamati ma… io…”
“Certo Jasper, ti capiamo. Vai e facci sapere!” Alice gli aveva messo una mano sul braccio guardandolo dolcemente.
“Vengo con te.” Dico di fretta. “Dammi un minuto che infilo le scarpe e
prendo la borsa.” Corro in camera da letto, saluto affettuosamente Poppy
con una carezza sulla testa e infilo al volo le converse. Prendo la
borsa, la giacca e torno in salotto. Jasper si è seduto mentre Angela
gli versa un bicchiere d’acqua.
“Guido io, puoi prendere l’auto domani o quando sarà. Ragazzi voi finite
di cenare e quando uscite chiudete la porta a chiave, Alice ha il
doppione.”
“Fateci sapere.”
Guido Jasper fino al garage sotterraneo e lo spingo sul sedile
passeggero. Non mi aspettavo che fosse così sconvolto, con tutti gli
incidenti e le emergenze che vede ogni giorno. Certo, si tratta di sua
sorella, ma vederlo così mi spaventa. Temo un crollo e io non so come
affrontarlo. Non so neppure perché mi sono offerta per andare con lui.
“Jasper, vedrai che Rosalie sta bene. Non ti hanno voluto dire nulla al
telefono per la privacy. Sai come funzionano queste cose. Starà bene,
magari ha qualche graffio, ma niente di serio, vedrai.”
“Sì, sì…” Non è convinto, non posso fare molto per distrarlo. Mi da le
indicazioni per l’ospedale in cui hanno portato Rosalie e Edward e seguo
la strada per qualche minuto in silenzio.
“I familiari di Edward sono stati chiamati?”
“No.” Sussurra appoggiando la testa al finestrino, ora molto più scosso. “No.” Ripete.
“Okay, posso chiamarli io una volta arrivati in ospedale. Non è un
problema.” Supero un semaforo e mi lamento internamente del traffico
serale.
“No.” Dice di nuovo e poi si schiarisce la voce. “Edward non ha
nessuno.” Mi volto a guardarlo con gli occhi sgranati. Per poco evito di
tamponare la macchina di fronte.
“Non ha… nessuno?” Devo deglutire e spezzare la frase, perché non riesco a pronunciarla.
“Nessuno. Non dirgli nulla quando lo vedrai, non… non chiedergli niente.
Non cambiare atteggiamento, non compatirlo, non… Lascia solo stare. Lui
non ne parla mai. Non lo sa nessuno di quelli che conosce ora. Lui non
ha nessuno.”
“Va bene, d’accordo. Allora chi starà con lui?”
“Io.” Deglutisce e guarda fuori dal finestrino. Lui non vorrebbe stare con Edward, lui vuole essere al fianco della sorella.
“Posso stare io con Edward, ho fatto volontariato in ospedale quando
avevo ventidue anni, non è un problema. So che vuoi stare con Rosalie.”
Quando parcheggio Jasper aspetta qualche secondo prima di scendere dall’auto e prima di parlare.
“Voglio stare con Rosalie, ma devo e voglio stare vicino a Edward. Nonostante tutto… Sarà difficile gestirlo stasera o domani.”
Non dico nulla, mi assicuro di chiudere l’auto e mi avvio, seguendolo,
dentro l’ospedale. Chiede informazioni e ci fanno accomodare nell’area
urgenze del pronto soccorso. Incontro e conosco i genitori di Jasper, ci
aggiornano sulle condizioni di Rosalie, ma nessuno sa nulla di Edward.
Rosalie è entrata in condizioni critiche, sta subendo un intervento e
solo quando sarà finito ci daranno notizie.
Mi siedo di fianco alla madre di Jasper e le stringo una mano, so cosa
prova in questo momento e so cosa vuol dire per lei trovarsi qui.
Indipendentemente da ciò che ogni famiglia ha vissuto, questo è un luogo
che ti annienta e sono minuti, ore, che ti lasciano il segno per
sempre. Jasper ha tirato fuori il distintivo e ha chiesto informazioni
su Edward a un’infermiera, anche lui è sotto intervento. Non ci resta
che aspettare e sperare.
Dopo un’ora ricevo un messaggio da Alice che dice di aver sistemato la
cucina, aver dato da mangiare a Poppy e aver chiuso la porta con doppia
mandata. La ringrazio e le dico che c’è solo da aspettare.
Jasper cammina avanti e indietro, consumando le suole delle scarpe e il
pavimento del pronto soccorso. Suo padre stringe sua madre in un
abbraccio e lei trema. Mi tolgo la giacca appoggiandogliela sulle spalle
e vado a prendere qualcosa di caldo per tutti. Al bar dell’ospedale
incontro James, il collega di Jasper.
“Ehi, Isabella vero?”
“Sì, tu sei James invece.”
“Cosa ci fai qui?”
“Jasper era da me quando l’ospedale l’ha chiamato, l’ho accompagnato.
Sono venuta a prendere qualcosa di caldo per i suoi genitori e per lui.”
“State insieme?”
Mi guarda con un sopracciglio alzato. Gli sembrano domande da fare? La
barista mi chiede cosa voglio e ordino, evitando di rispondere alla
domanda di James.
“Scusa, so che non è il momento adatto per questa domanda. E’ che…
Niente. Non ho nulla in contrario se sei la sua ragazza ma, per favore,
stagli vicino. Sembra un ragazzone ma è facile ferirlo e perderlo per
strada.” Le sue parole mi fanno girare di scatto con il porta bicchieri
di cartone tra le mani.
“Non sono la sua ragazza James, sono solo un’amica. Rosalie è mia amica e
non ho intenzione di lasciarlo da solo ad affrontare tutto ciò. Non
sono la sua ragazza, ma se tu sei suo amico dovresti essere di là con
noi, invece che accusare me di voler ferirlo.” Me ne vado, lasciandolo
da solo a riflettere. Porgo i bicchieri alla famiglia Hale e sorseggio
il mio caffè macchiato, mentre osservo la figura di James entrare nel
pronto soccorso e abbracciare il suo collega. Si scambiano qualche
parola sussurrata, probabilmente inerente all’incidente e capisco solo
che l’autista è morto sul colpo. Deve essere stato davvero un brutto
incidente.
Dopo altre due ore infinite un chirurgo esce da quelle maledette porte
dell’area d’urgenza e ci aggiorna. Rosalie sta bene. Ha una gamba rotta
che hanno operato e ingessato, due costole rotte, delle escoriazioni sul
braccio per via di alcuni vetri che l’hanno ferita e una brutta ferita
alla testa che hanno ricucito. Hanno fatto la tac per riscontrare
possibili traumi interni ma, per fortuna, non ve ne è traccia. I
genitori chiedono se la possono vedere e gli viene detto di aspettare
che la portano in reparto, nella camera assegnata a lei. Jasper invece
chiede di Edward. Il chirurgo dice che dovrà aspettare il suo collega e
ci saluta.
I coniugi Hale vengono indirizzati al reparto in cui stanno portando
Rosalie, mentre Jasper resta in pronto soccorso ad aspettare notizie di
Edward. James se n’è andato subito dopo aver saputo di Rosalie, dovrà
coprire il turno di Jasper domattina.
“Non serve che stai qui, Isabella. Puoi tornare a casa, sono le tre della mattina. E tu non puoi prenderti giorni di riposo.”
“Non preoccuparti. Aspetterò con te e quando è ora andrò al lavoro da qui direttamente.”
“Perché lo fai?”
“Perché sei mio amico, perché ti voglio bene e perché ne voglio a Rosalie. Non ti lascio da solo.”
“Non sto aspettando Rosalie, non sono qui solo per Rosalie. Lo sai che
sto aspettando notizie di Edward. L’uomo che ti ha rovinato la carriera e
che tu non sopporti. Perché aspetti con me?”
“Perché non voglio lasciarti solo, perché a volte stare soli fa proprio
schifo e perché odio il fatto che Edward sarà da solo quando si
sveglierà, perché tu vorrai stare con Rosalie e poi dovrai tornare al
lavoro.”
“Chiunque altro se ne fregherebbe.” Mormora.
“Io non sono chiunque. Ho fatto la volontaria in ospedale per un anno e
mezzo.” Anche se stiamo condividendo questa nottata assurda e tragica
ancora non me la sento di raccontare un pezzo di me. Non ce la faccio
proprio.
“I tuoi segreti prima o poi verranno fuori, lo sai vero?”
“Non sarò io ad aprire quei cassetti.” Sussurro. Lui potrebbe già
saperlo, in realtà, eppure non mi tratta diversamente né mi dice che lo
sa.
“Ovviamente! Hai un bel po’ di cose in comune con Cullen, se non
scorresse così tanto odio fra voi… potresti essere importante per lui.”
Lo sa. Lo sa e vuole che sia io a parlare. Lo sa ma non mi spinge a
parlare. Lo sa, ma non mi compatisce.
Sto per rispondergli ma un uomo vestito di verde esce dall’area urgenze e
chiede dei parenti del signor Cullen. Io e Jasper gli andiamo incontro,
ovviamente fa storie quando vede me e sono costretta a mentire.
“Sono la sua fidanzata. Isabella Swan.” E’ incerto, ci guarda come per
soppesare i pro e i contro, ma alla fine controlla di nuovo il
distintivo di Jasper e ci spiega.
“Il signor Cullen ha riportato una frattura al braccio destro,
l’ortopedico ha sistemato l’osso fuoriuscito e ingessato, vi dirà lui
stesso domattina quanto ci vorrà prima del prossimo controllo. Ciò che
ci ha preoccupato in realtà sono state le ferite al fianco e allo
stomaco. Dovrà stare a riposo per un mese, niente sforzi, niente
piegamenti, nessun movimento brusco né attività fisica.” Mi guarda con
un sopracciglio alzato. Attività fisica? “Di nessun genere.” Oh. Oh.
Attività fisica. Di nessun genere. Sesso. “Abbiamo fatto delle tac e
delle radiografie per escludere emorragie o fratture in altre parti del
corpo. Abbiamo notato una massa all’altezza dei polmoni, dove è presente
una vecchia cicatrice. Fra qualche giorno il medico effettuerà qualche
esame approfondito.”
“Possiamo vederlo?”
“Lo stanno svegliando dall’anestesia al momento, fra mezzora lo porteremo in camera.”
“Ehm dottore…” Jasper tira da parte il dottore per potergli parlare in
tranquillità ma sento ogni cosa che dice. “Il signor Cullen ha problemi
con gli ospedali, quando si renderà conto di dove si trova potrebbe
sembrare un pazzo. E’ stato in cura per anni con uno psicologo ma non
hanno trovato una cura adatta né il bandolo della matassa. In più ha
spesso incubi notturni che rievocano momenti del passato che lo
impauriscono. Grida e si agita. Credo sia meglio tenerlo sedato finché
le ferite non si stabilizzano.”
“Lei non è solo un poliziotto? Non dovrebbe essere la sua fidanzata a
dirmi queste cose?” Mi lancia un’occhiata e io sconsolata abbasso gli
occhi sulle mie scarpe.
“Conosco Edward da quando siamo bambini, era in macchina con mia sorella
questa sera, lavorano insieme. La sua fidanzata non dorme con lui
proprio per questi problemi, lui non vuole. E’ possibile tenerlo
sedato?”
“Questa notte dormirà a causa dell’anestesia, domattina parlerò con il
medico di reparto e farò scrivere nella sua cartella che al bisogno
verrà sedato. E’ il caso che qualcuno resti con lui, nel caso dovesse
agitarsi da solo nella stanza.”
“Certamente.”
Il dottore ci congeda con un cenno del capo e Jasper si avvicina a me.
Mi guarda dispiaciuto e mormora un debole “Non dirlo a nessuno”,
annuisco e lo seguo mentre chiede alle infermiere quale sarà la camera e
il reparto di Edward.
Quando lo portano nella camera Cullen sta dormendo, restiamo a osservare
da fuori mentre le infermiere gli sistemano i tubicini, i monitor, le
sonde e tutto il resto che consegue. Quando Jasper entra lo seguo, in
silenzio. Prende posto sulla sedia a fianco del letto e sospira, sembra
voglia parlare, ma le parole restano incastrate dentro la gola. Non oso
farmi più vicina, Jasper sembra abbia davvero voglia di restare da solo
con lui. Mi appoggio alla porta, ora chiusa, della stanza e cerco di non
muovere nemmeno un muscolo per non distrarlo.
“E così eccomi di nuovo qui. Sono di nuovo al tuo fianco, di nuovo in un
letto di ospedale. Tu non hai idea di quante volte io sia stato seduto
al tuo fianco mentre dormivi profondamente controllato dai monitor. Non
hai idea di quante volte volessi svegliarti scuotendoti e dirti che sei
uno stupido, che… Dio!” Si passa una mano che trema sulle labbra e
chiude gli occhi, stringendoli forte.
Non ho mai visto Jasper in una situazione del genere, non ho mai sentito
Jasper parlare di Edward o parlare con lui, a parte quel breve
intermezzo nella sala riunioni quando sono stata licenziata. Resto
sconvolta a fissare la scena.
“Un piano più sopra c’è Rosalie, sai quanto voglio bene a mia sorella,
eppure sono qui con te. Con te, maledizione. Mi farai morire di
crepacuore un giorno, senza saperlo.”
Le parole sono dure ma calde, non è un uomo freddo, non sta parlando
come se fosse un vecchio compagno di giochi perso per strada. C’è molto
di più tra loro, come ho sempre immaginato.
“Starò qui, finché non ti svegli. Starò qui. Non sei solo, Edward. Non
sei solo.” Gli occhi mi si inumidiscono e sento le lacrime premere e
spingere per venire fuori. Ho visto molte scene da pianto in ospedale e
fuori, ma questa mi tocca particolarmente. Jasper appoggia la mano su
quella di Edward e la stringe appena mormorando ancora tenue “Non sei solo”.
Esco nel corridoio e mi siedo nella sala d’aspetto, c’è un distributore
automatico di caffè, probabilmente farà più schifo di molti altri che ho
provato, ma ho bisogno disperato di caffeina, tra tre quarti d’ora devo
partire per andare al lavoro. Prendo anche delle barrette energetiche e
un saccottino alle mele, un caffè in più per Jasper e torno in camera a
passo lento. Appoggio sul comodino una barretta energetica e il caffè e
poso una mano sulla spalla di Jazz.
“Tra poco devo essere al lavoro, passo da casa a cambiarmi prima. Ti ho
preso un caffè forte e qualcosa da mangiare, dovresti assumere qualche
caloria Jazz.”
“Hai sentito tutto, vero?”
“Non so di cosa parli.” Gli sorrido mesta e poi mi piego a baciargli la
guancia. “Fammi un favore, mangia la barretta e bevi il caffè. Finito il
turno verrò in ospedale a darti il cambio.”
“No. No. Preferirei che andassi a casa a riposarti. Io starò con Rosalie
due ore oggi mentre i miei si riposano e poi tornerò qui e stanotte
andrò a riposare, deve esserci qualcuno con Edward. Non posso lasciare i
miei genitori. Non posso chiederglielo. Vorrei che stessi tu stanotte.”
“Certo. Posso farlo.”
“Non sarà facile. Si sveglierà, urlerà, si agiterà. Devi tenerlo fermo,
devi chiedere i sedativi, devi…” Di nuovo si passa una mano sulle labbra
e poi sui capelli. L’altra mano non lascia mai quella di Edward. “Non
lasciarlo solo. Lui lo sente, se è da solo si agiterà.”
“Non lo lascerò solo. Mangia e bevi il caffè, a più tardi.”
Lascio l’ospedale di fretta, corro a casa a cambiarmi, esagero con il
deodorante e con il profumo. Non ho il tempo di fare la doccia e vorrei
non sentire addosso quell’odore freddo e chimico dell’ospedale. Vorrei
non esserci entrata ancora una volta, vorrei solo che fosse un brutto
incubo. Invece mi sono offerta di stare con Edward stanotte, ho
accompagnato Jasper e mi sono offerta di stare con un uomo che non mi
sopporta, che mi ha licenziato, che ha una bassa considerazione di me e
che nel momento in cui mi vedrà darà di matto. Sono una masochista, ecco
cosa sono. Una pazza masochista. Dovrei parlare con il mio psicologo.
Sì, come se fosse ancora disponibile a riprendere la terapia dopo tutti
questi anni.
Bruce mi guarda stralunato quando entro nella caffetteria con i capelli raccolti, gli occhiali e la faccia pallida.
“Che succede?”
“Niente, nottata da dimenticare!”
“Fatto baldoria?”
“No, attesa in pronto soccorso. Davvero non è niente, riesco a lavorare,
a sorridere e a essere una brava cameriera, ho solo bisogno di caffè
ora.”
Butto via il primo caffè della macchinetta, il secondo è sempre più
buono perché la macchina si è scaldata. Bruce inizia a distribuire su un
piatto i muffin che la pasticceria all’angolo ci ha portato. Io mentre
bevo il caffè riempio le ciotole di bustine di zucchero.
La giornata prosegue, senza intoppi. Scrivo un paio di messaggi a Jasper
che risponde laconico, tengo aggiornata Alice e lei tiene aggiornata me
sulla Cullenhale. Pare che Angela abbia preso il comando al posto di
Cullen e di Rosalie e che abbia iniziato a mettere in riga tutti. Angela
in versione capo mi fa uno strano effetto, ma ce la può fare. Deve
farcela. Tutti e due i responsabili sono fermi in un letto di ospedale.
Quando finalmente torno a casa sento la stanchezza fin dentro le ossa,
devo riposare, la notte è ancora lunga. Ho avvisato Bruce che domani
entrerò in servizio alle otto, gli ho spiegato che ho un’amica
ricoverata in ospedale a cui bisogna fare assistenza e non ha famiglia.
Ha storto il naso, mi ha guardata con circospezione e poi ha detto okay.
Ho tutto il tempo di fare la notte al fianco di Cullen e arrivare in
caffetteria. Mi preparo già il cambio in una borsa che lascio in
macchina, preparo il portatile da tenere con me in ospedale e qualche
merendina da mangiucchiare. Fanculo anche alla linea. Mi butto sotto la
doccia e il getto caldo dell’acqua mi scioglie i nervi, ne avevo un
bisogno disperato. Quando tocco il cuscino ho già un occhio mezzo
chiuso. Imposto la sveglia e crollo addormentata.
La sveglia suona, la spengo e mi alzo, consapevole che tra dieci minuti
dovrò essere in macchina, occhi aperti e concentrazione al massimo. Mi
sciacquo la faccia con l’acqua fredda, mi cambio e prendo un maglione in
più se mi viene freddo. Gli ospedali ti muniscono di coperta se fai
assistenza, ti passano la colazione volentieri, ma non sempre la coperta
ti scalda come un maglione fatto a mano da tua nonna. Guardo la
fotografia sopra la scrivania della mia camera, mando un bacio come
sempre e poi sistemo le ciotole di Poppy. Prendo le borse e mi avvio nel
garage. Le strade sono trafficate anche alle nove di sera, ci metto più
di mezzora ad arrivare all’ospedale. Parcheggio vicino all’entrata,
sono fortunata a trovare un posto libero, lascio la borsa con il cambio
nel bagagliaio e porto il resto con me. Prima di salire passo in
caffetteria a farmi riempire la tazza di caffè. Il mio thermos comodo e
personalizzato che ho da quando frequentavo il college.
Passo da Rosalie e trovo già il papà.
“Come sta?” Mormoro dopo averlo salutato.
“Si è svegliata qualche ora fa lamentandosi del dolore alla gamba. Le
hanno dato un po’ di antidolorifico ed è tornata a dormire.”
“Vedrà che si rimetterà.” Appoggio la mano sulla spalla e lui mi sorride dolcemente.
“Ne sono sicuro. Rosalie è molto forte. Ho sentito che stanotte farai la veglia a Edward. Lo conosci da molto?”
“No. Lavoravo per la Cullenhale fino a un mese fa circa, sono stata
licenziata proprio da Edward. Ma non è importante. Le cose accadono e
non possiamo tornare indietro. Jasper mi ha detto che… insomma Jasper
vuole andare a riposare e io ero disponibile e…” Mi trovo a disagio, non
so se i genitori di Jasper conoscono Edward come lo conosce lui, non so
se sanno che è qui da solo, che non ha nessuno.
“Tranquilla, conosciamo Edward da quando aveva pochi mesi di vita. So tutto. Capisco perché sei qui e ti fa onore.”
“Oh.” Scuoto la testa, mi avvicino a Rosalie per salutarla con una
carezza sul braccio e poi mi volto per andarmene. “Non si dovrebbe mai
stare in ospedale da soli, ho fatto la volontaria per un anno, posso
sopportare qualche nottata.”
Lo saluto e mi dirigo nella camera di Edward.
Come la scorsa notte Jasper è al suo fianco, la testa chinata sulle
spondine del letto, la mano sopra quella dell’amico. Le spalle sono
curve e il respiro è pesante, sta dormendo. Appoggio le mie cose nel
tavolino di fianco alla finestra e mi avvicino piano a Jasper, sussurro
il suo nome per svegliarlo, ma basta una sillaba e apre gli occhi.
“Oh, sei qui.”
“Sì, è il caso che tu vada a casa a riposare.”
“Tu hai fatto quello che ti ho detto?”
“Sì, ho con me qualcosa per affrontare la nottata sveglia, ho dormito
appena sono arrivata a casa e ho anche avvisato il mio capo che
domattina farò tardi. Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo.”
“Bella…” Guarda prima me e poi Edward steso sul letto, immobile.
“Lo so Jasper. Lo so. La mano sempre sulla sua e se si agita fermarlo
con tutte le mie forze mentre chiamo per avere un sedativo. Me l’hai
detto.”
“Non è solo questo. Stamattina si è svegliato poco dopo che sei andata
via. Ha cominciato a urlare che voleva andarsene, ha iniziato ad
agitarsi, non deve, le ferite non si sistemeranno mai. Rischia di farsi
del male.” Lo osservo, mi sta dicendo cose che so già, perché lo ripete?
“Jasper-” Mi interrompe scuotendo la testa.
“Gli incubi sono brutti Bella, sono davvero brutti. Non svegliarlo,
calmalo in qualche modo e se non ce la fai chiama qualcuno. Non
svegliarlo, calmalo.” Lo guarda e gli stringe la mano più forte. Non li
ho mai visti insieme fuori di qui, se non quando hanno litigato in sala
riunioni, so che si conoscono da tempo, so che ne hanno passate tante
insieme ma Jasper si comporta come un fratello e non come un amico.
Resto sconvolta dall’amore fraterno che leggo nei suoi occhi, dalla
curvatura delle sue spalle, dalla preoccupazione nella sua voce.
“Io…” Sono costretta a fermarmi, respirare e ricominciare. “Farò tutto
quello che posso, ascolterò i tuoi consigli e cercherò di calmarlo. Non
lo sveglio. Non si farà del male e gli farò dare dei sedativi. Tu vai a
casa, calmati, riposati e fatti una doccia. Ci vediamo domattina e se ho
bisogno ti chiamo.”
“Non so come mai sei qui. Non lo so.”
“Sì che lo sai, ma fai finta di niente.” Mi guarda negli occhi, mi
fissa, mi scruta come se avessi sganciato una bomba, poi sospira e
abbassa gli occhi sulla mano di Cullen.
“Lo so, ma vorrei che ti sentissi libera di parlarmene quando vuoi.”
“Non ne parlo mai.”
“Lo vedo. Lo so. Eppure… ti farebbe bene.” Alza gli occhi su di me.
“Anche Edward è così, anche lui non parla mai, si tiene tutto dentro da
anni, non si sfoga mai, non mi chiama mai, non… Dannazione!” Si passa
una mano sugli occhi prima che possa sfuggirgli qualche lacrima, ma io
la vedo, e mi ferisce tantissimo.
“Jasper…”
“No. No. E’ solo la stanchezza e la frustrazione. Non posso fare nulla
per Edward, non mi vuole attorno a lui, nella sua vita, ci ho provato ma
non mi ascolta, non mi parla, litighiamo e basta. Ma tu Bella, tu puoi
parlarmi, puoi raccontarmi se ne hai voglia.”
“Sono scappata da una cittadina perché tutti sapevano, tutti parlavano,
tutti mi guardavano Jasper. Sono scappata perché era troppo difficile
essere quella ragazza. Ho costruito barriere che non voglio perdere, per
favore, non abbatterle. Non c’è niente da dire. C’è solo da andare
avanti ogni giorno.”
Annuisce, stringe la mano di Edward e raccoglie le sue cose. Mi saluta con un bacio sulla guancia ed un grazie prima di sparire.
Mi avvicino la sedia ancora di più al letto, prendo il portatile e
prendo posto. Appoggio la mano sinistra su quella di Edward e inizio a
scorrere i file nel computer. Leggerò qualche libro nell’attesa della
mattina.
La mano di Edward è morbida sotto la mia, è calda, ma immobile. Vedere
lui in questo letto è troppo, è strano; proprio Cullen che non si è mai
fermato un attimo da quando ci siamo conosciuti, da quando ho iniziato a
lavorare per lui. Eppure è qui, fermo, immobile, come se fosse una
statua di sale. E’ strano, angosciante, ti fa pensare che potrebbe
succedere a chiunque, che non importa chi tu sia, se è destino sarà il
tuo turno.
Nonostante ci sia l’orologio sullo schermo del pc, sono talmente presa a
leggere delle conquiste di questo uomo, protagonista del libro che non
mi rendo conto di quanto tempo passa. Ad un certo punto sento la mano di
Edward tremare sotto la mia. Appoggio il pc per terra, in velocità, e
mi tengo pronta. Il braccio si alza come preso dalle convulsioni, e le
spalle cominciano a tremare. Mormora suoni incomprensibili e faccio
fatica a tenerlo fermo.
“Shhh. Calmati, calmati. Va tutto bene.” Dico a bassa voce. Tengo le
mani sulle sue spalle, faccio una leggera pressione per tenerlo fermo,
individuo il campanello e lo pigio in fretta, meglio chiamare per nulla
che farlo quando sarà troppo tardi. Ho fatto una promessa a Jasper e
intendo mantenerla.
Cullen si agita ancora, i suoni sono più forti, ma ancora
incomprensibili; vorrei poterlo capire per riuscire a farlo calmare, per
trovare un appiglio e parlargli del suo incubo, tranquillizzarlo, ma
niente. Il braccio ingessato si muove, comincia a gemere forte, il corpo
si agita, sembra voglia alzarsi in piedi e correre. Sento i passi delle
infermiere che stanno arrivando, sento il dolore di tutti i suoi pugni
sui fianchi, sulla pancia, ma non mi muovo, lo tengo fermo come posso,
cercando di non fargli muovere il busto, la parte del suo corpo più
critica. Ci riesco buttandomici sopra con tutto il peso, è davvero
forte.
Quando le infermiere aprono la porta e un raggio di luce gli illumina il
volto un grido squarcia il silenzio. Un grido forte, chiaro, che non
avrei mai voluto udire.
“MAMMAAAAA!”