martedì 22 dicembre 2015

Capitolo Sette

**Note di Aly

Salve a tutte. Vi ho fatto aspettare anche troppo per l'aggiornamento, mi dispiace. Questo dovrebbe essere un momento di gioia e serenità per tutte quante, invece è uno dei peggiori momenti possibili. Ci sono cose che sfuggono al nostro controllo e che ci tagliano la strada lungo il percorso, in questi casi non si sa mai come affrontare le conseguenze e tutto ciò che viene poi. Per colpa di questi ostacoli e anche perchè ho partecipato ad un contest natalizio, ho lasciato da parte gli aggiornamenti di questa storia per qualche giorno. Ma adesso sono tornata e spero, nonostante tutto, di riuscire a pubblicare in tutta tranquillità.
Vi avverto che nei prossimi giorni, probabilmente, pubblicherò delle OS che hanno partecipato a vecchi contest e che ancora non ho messo online per voi, tenete d'occhio il blog delle OneShot!
E' Natale, quasi, e vi ricordo che potreste farvi un regalo tutto per voi acquistando l'ebook Bout de Souffle su Amazon. L'autrice sono io, la storia è quella che pubblicai su EFP tempo fa e che ha riscosso molto successo, solo che è diventata una lunga ed emozionante storia da leggere con calma. Trovate il link della pagina Amazon del Libro qui a fianco.
Se volete leggere le storie del contest natalizio a cui ho partecipato vi lascio il link qui:  http://natale2015-twi-contest.blogspot.it/2015_11_01_archive.html
Leggete il regolamento per votare se volete e lasciate un commento a tutte le storie, se volete. Le autrici lo apprezzano molto e le storie sono sempre molto belle.
Passiamo a noi. Affrontiamo, questa volta, un capitolo sempre denso di bellissime e profonde emozioni.
Il mio pezzo preferito dello scorso capitolo è la seguente:

Dal sesto capitolo di Grido nel Silenzio:

“Non voglio più dormire.”
“L’ho detto tante volte anche io. Poi però ho trovato la pace e riesco a riposare bene ogni notte. Per questo devi farti degli amici, devi ricominciare a frequentare Jasper, a sfogarti, dormirai meglio e gli incubi spariranno per un po’. Sarà tutto più semplice.”
“Niente lo è.”
“Lo sarà. Chiuderai tutto in un armadio, lo coprirai con un telo bianco e lo lascerai lì dentro per giorni, settimane, mesi. Poi saprai che è lì, ma è nascosto. Non ti tortureranno gli incubi per settimane e per interi mesi. Sarà più facile, sarà più semplice.”
“Lo credi davvero?”
“Lo so.” Mormoro distratta.
Guardo ancora lo schermo davanti a me senza più parlare, nella mente solo l’immagine di una bambina seduta dentro una macchina mentre guarda l’ambulanza portare via suo padre.


Bene, adesso vi lascio alla lettura del capitolo e ci rivediamo nei prossimi giorni.
Vi auguro Buone Feste e tanta serenità se non dovessi passare di qui prima di Natale.
Come sempre, Buona lettura e buona serata.
Aly**


 

Mi sono appisolata verso le quattro, Edward dormiva pacifico oppure faceva finta per non dover parlare con me. In quel caso, però, mi aspettavo che aprisse gli occhi e mi maledicesse quando appoggiai una mano sulla sua. Ero stanca di leggere per cui avevo appoggiato la testa alla spondina del letto e avevo preso sonno. Il telefono aveva iniziato a vibrare verso le otto e dieci, mi ero svegliata di scatto, ero uscita dalla stanza di Edward per lasciarlo riposare e avevo risposto a Bruce. Mi chiese come stavo, se mi era passato il dolore e se potevo lavorare il giorno dopo. Jasper gli aveva raccontato che mi ero fatta male tornando a casa ieri e che mi aveva portata in pronto soccorso. Non sapevo come sarebbero andate le cose, per cui gli dissi che sarei andata a lavorare il giorno seguente. Senza ombra di dubbio. Mi disse di riposare e di farmi trovare in forma per il turno della mattina, dalle sei. Odiavo quel lavoro, ma mi permetteva di pagare le bollette e mangiare ogni giorno, per cui dovevo tenermelo. Pensare che la causa di tutto era steso sul letto dentro la stanza alle mie spalle mi faceva venire un po’ di rabbia, ma mantenevo la calma, la colpa era di entrambi. Fine delle trasmissioni. Ero rientrata in camera e avevo ripreso il mio posto, la mia mano sulla sua e la testa sulla spondina, ma non ero più riuscita ad addormentarmi. Così avevo preso a giocare con uno stupido gioco sul cellulare fino a quando le infermiere non vennero a controllare Edward. Mi fecero uscire dalla stanza e ne approfittai per andare a prendere del caffè al bar. Non sapevo cosa Edward potesse mangiare per colazione, ma supposi che gliel’avrebbero data le infermiere. Comprai anche un muffin al caramello e andai a trovare Rosalie. Era sveglia, mentre sorseggiava del tea caldo.
“Ciao.” Mi sorrise appena, i capelli raccolti dalla benda, il viso un po’ acciaccato e gli occhi stanchi.
“Ciao Bella, che ci fai qui di prima mattina?”
“E’ meglio tu non lo sappia ancora, finisci di fare colazione prima!” Le feci l’occhiolino e presi posto nella sedia lasciata libera da suo padre. “Come ti senti?”
“Uno straccio. La testa mi fa male e la gamba… non ne parliamo.”
“Ti vedo stravolta, in effetti. Devi riposare.”
“Sì, tornerò a dormire non appena finisco di mangiare. Ho una fame da lupi.”
“Ci scommetto. Con le medicine che ti danno è normale.”
“Ora raccontami perché sei qui.” Sospiro, pronta a sentirla urlare.
“Sono qui per Edward. Jasper mi ha detto che è solo e mi sono fatta trascinare dalla mia aria da crocerossina offrendomi di stare con lui per qualche ora. Ma qualche ora è diventato molto di più quando tuo fratello mi ha incastrata fino a oggi pomeriggio perché lui è al lavoro. Insomma, sono la balia di Edward.”
“Isabella…”
“Lo so. Lo so. Non guardarmi così.”
“No, non lo sai. Senti Edward è orgoglioso, fa fatica ad ammettere di aver sbagliato ma si pente di averti licenziata. Non avercela con lui. E’ solo molto ferito e alle volte dorme male per cui si alza stronzo. Ma non è così male se lo conosci bene.”
“Non è male, no. Lo so che ha gli incubi, stanotte mi sono praticamente sdraiata sopra di lui per tenerlo fermo. So più di quanto pensi e… lo capisco. Non ce l’ho con lui, ma il destino è amaro certe volte.”
“E tu invece sei così buona. Grazie per quello che fai per Edward. Io e Jasper te ne siamo grati.”
“Ti sei avvicinata a Edward quando lui ha smesso di stare con Jasper, vero?” Le chiedo di getto. Lei annuisce muovendo pianissimo la testa. “Era più facile per lui stare con te piuttosto che con Jasper. Perché?”
“Perché io lo trattavo come se fossi una stronza, mi sono sempre comportata così con lui e lo trovava accettabile. Jasper però gli è sempre stato vicino, tutte le volte che…”
“Che finiva in ospedale?”
“Come lo sai?”
“Ho ascoltato Jasper chiacchierare con un uomo addormentato l’altra notte. Diceva che non era solo, che c’era lui, che anche questa volta era lì mentre lui se ne stava sdraiato e addormentato… e cose del genere.” Rosalie sospira e mi guarda.
“Non dovresti sapere queste cose!”
“Senti Rosalie, la situazione qui è al limite della follia. Io non so se ce ne rendiamo conto ma è davvero assurdo, tutto quanto. Io non sono nessuno per stare di sotto con Edward, non sono amica, non sono la fidanzata, non sono la sua famiglia. So che non ha nessuno, so che è solo e lo capisco, comprendo perché tu e Jasper pensate a Edward e cercate di stargli vicino come potete. Sono brava a capire queste cose. Quindi non dirmi cosa dovrei o non dovrei sapere. Chiaro? Perché, a rigor di logica, io non dovrei neppure stare di sotto con lui!”
“Lo so.”
“Ecco, quindi vuoi raccontarmi una buona volta?”
“No, non posso. Sai già troppo e Edward mi strangolerebbe se sapesse che ti ho raccontato anche questo. Non posso proprio.” Annuisco sconsolata. Passo qualche altro minuto con Rosalie, senza parlare di Edward e senza affrontare discorsi seri, lei finisce di fare colazione e io sorseggio il mio caffè. Dopo di ché la saluto e torno alla mia postazione da balia. Edward è sveglio quando ritorno, la colazione è ancora nel vassoio sul comodino, non è stata toccata e le infermiere non l’hanno aiutato. Mi avvicino al letto e prendo posto sulla sedia, lui ha gli occhi incollati sui piedi nascosti dalla coperta, io cerco di non fiatare. Odio questa cazzo di situazione imbarazzante.
Mi schiarisco la voce e mi azzardo ad alzare gli occhi su di lui.
“Le infermiere non ti hanno aiutato con la colazione?”
“Non ho fame.” Mormora serio e corrucciato. Okay, non ha fame. Ma se hanno portato qualcosa per lui dovrebbe mangiare comunque, dovrebbe sforzarsi.
“Lo capisco, ma ti danno dei medicinali che ti rovinano lo stomaco, il protettore da solo non fa molto. Dovresti davvero ingerire qualcosa e bere del tea caldo, in modo che il tuo organismo riprenda le vecchie abitudini.” Mi accascio sulla sedia priva di forze. Ho riposato poco, è vero, ma non è solo per questo che sono stanca.
“Cosa ne sai tu di cosa è meglio per me?”
“Adoro la tua acidità di prima mattina, ma sono così felice di non dovermela sorbire ogni giorno!” Mi nasce un sorriso sarcastico sul viso e per togliermelo scuoto la testa. Non serve questo ora.
“Quella è la porta, puoi tornartene a casa!”
“Stamattina sei di buonumore. Tutta questa allegria mi sta mettendo a disagio, Cullen!”
“Te lo ripeto, puoi andartene, nessuno ti obbliga a stare qui. Tantomeno a rivolgermi la parola.” Si deve essere svegliato male, probabilmente le infermiere avranno ripulito le ferite e toccandolo il dolore è ricominciato più acuto di prima. Oppure mentre ero via ha avuto un altro incubo. No, le infermiere al banco me l’avrebbero detto quando ero tornata.
“D’accordo. Stamattina non sei collaborativo. Facciamo una cosa, tu stai zitto e non mi contagi con tutta questa allegria e io non ti costringo a mangiare. Contento del patto?”
“Sì.” Mormora serio, ancora fisso sui suoi piedi. Prendo il cellulare dalla tasca e inizio a controllare la posta elettronica, facebook e a giocare a qualche stupidaggine per passare il tempo. Non guardo l’orologio, se dovessi farlo mi accorgerei del tempo che passa lentamente, perché è sempre così quando sei dentro l’ospedale. Ad un certo punto devo per forza alzare gli occhi su Edward perché sento il suo stomaco brontolare. Mi scappa una risata e non riesco a contenermi.
Lui gira la testa dall’altra parte con le guance rosse. Orgoglioso che non è altro.
“Hai fame, per caso?” Dico piano.
“No.” Il suo borbottio mi fa ridere fragorosamente.
“Ne sei sicuro? Perché ho sentito il tuo stomaco borbottare.”
“Ci senti male, Swan!”
“D’accordo.” Ancora con il sorriso sulle labbra mi rimetto a dare attenzione al cellulare. L’infermiera si affaccia alla porta distogliendo la mia attenzione.
“Signor Cullen, il medico ha detto che deve mangiare o non potrà farle l’iniezione pomeridiana per il dolore, non possiamo più nutrirla con le flebo, deve riprendere ad abituare il corpo alle sostanze liquide e solide. Si sforzi.”
“Non ho fame.” Borbotta ancora.
“Signorina, veda di convincerlo!” Mi lancia un’occhiata eloquente e se ne va. Scoppio a ridere. Come se non ci avessi già provato.
Torno al mio cellulare ma lo stomaco di Edward mi distrae continuamente, fino a impedirmi addirittura di pensare.
Mi incazzo dentro me stessa e devo calmarmi prima di rivolgergli la parola.
“Senti, vuoi dirmi che ti prende? E’ chiaro che hai fame, il tuo stomaco si sente fino a Miami!” Le sue guance si colorano di rosso ancora una volta, ma resta sempre a guardare da un’altra parte.
“Non posso mangiare da solo. Non ho mai imparato a mangiare con la sinistra. E odio farmi imboccare da qualcuno.” La sua confessione mi fa ridere da una parte ma mi intenerisce. E’ sempre stato autonomo e ha gestito la sua vita da solo, ora si trova a dover dipendere da qualcuno.
“Potevi chiederlo alle infermiere, è il loro lavoro.”
“Hai sentito la parte in cui ti ho detto che odio farmi imboccare?”
“Edward, hai un braccio ingessato e devi mangiare. Due sono le soluzioni. O ti fai imboccare o impari a usare la mano sinistra.” Borbotta qualcosa che non capisco e torna a ignorarmi. Non caviamo un ragno da un buco di questo passo.
Afferro il tavolinetto e lo avvicino a me, il vassoio contiene una tazza di tea al limone, uno yogurt magro e dei cereali. Una colazione leggera, che non penso possa soddisfare la fame del campione qui steso.
“Avanti, sii collaborativo. Ti imbocco io!”
“No.” Sbuffo sonoramente. Mi ha proprio scocciata.
“Senti Cullen, stamattina ti sei svegliato male, odi farti imboccare ma devi mangiare e, te lo assicuro, non ho una pazienza infinita. Se devo ti infilerò giù questo cibo con la forza, quindi collabora o mi costringerai a stancarmi ancora di più e non potrò andare a lavorare domattina e mi licenzieranno. Ancora una volta. E non vorrai avere mica sulla coscienza un altro mio licenziamento, vero?”
“Sei proprio dispotica.”
“E tu sei un bambino. Forza, avanti!” Si gira verso di me sbuffando. Puoi sbuffare quanto vuoi, carino, ho visto gente molto più ostinata di te cedere sotto le mie pressioni. Soddisfatta di me stessa apro lo yogurt e lo verso nella ciotola dei cereali.
“Odio lo yogurt magro. Sa di acido.”
“Beh è giusto per il tuo umore mattutino, le infermiere probabilmente ti conoscono bene!” Mi lascio scappare ridacchiando, mi lancia un’occhiataccia ma non mi lascio intimorire. “Cosa preferiresti mangiare?”
“Basterebbe un po’ di zucchero o del cioccolato. I cereali senza cioccolato fanno schifo. Ho delle palline di cioccolato a casa che ci starebbero divinamente!” Gli si illuminano gli occhi e scoppio a ridere, a volte sembra proprio un bambino.
“Va bene!” Frugo nella borsa alla ricerca della mia barretta di cioccolato fondente e lo raggiungo. “Non lo diciamo a nessuno!” Gli strizzo l’occhio e continuo a spezzettare la cioccolata nello yogurt mentre lui mi guarda soddisfatto. Mescolo tutto con il cucchiaio e poi zucchero il tea al limone.
“Lo bevo amaro.”
“No, lo bevi zuccherato. Il tuo corpo ha bisogno di energia, lo zucchero ti aiuta in questo, ti hanno messo due bustine di zucchero per una tazzona di tea, vuol dire che ne devi assumere un po’. Che tu lo voglia o no.”
“Odio il tea, preferisco il caffè. E odio lo yogurt magro. E odio farmi imboccare!” Borbotta imbronciandosi.
“E io odio dover imboccare un lamentone. Davvero Edward, neppure i vecchietti con cui ho avuto a che fare con il volontariato erano così rompi palle!” Avvicino il primo cucchiaio di yogurt alla sua bocca e inizio a dargli da mangiare. Si sporca in continuazione ma la sua lingua, prontamente, passa a raccogliere lo yogurt che resta sui bordi. E’ qualcosa di indecente, sensuale, eccitante. Devo distogliere l’attenzione e concentrarmi sulla sua colazione, o rischio di fare figure di merda. Finisce la scodella di yogurt e cereali in pochissimo tempo, gli passo un tovagliolo sulle labbra e sul mento e mentre lo faccio i nostri occhi si incrociano. Maledizione. Quel verde attrae come una calamita e le sue labbra sembrano così morbide, così piene. Deve essere un gran baciatore.
A che diavolo sto pensando, dannazione!
Il tea è un po’ più critico da fargli bere, ma con pazienza riesco a non versarglielo tutto addosso.
“Porto il vassoio alle infermiere, saranno felici che tu abbia mangiato. Magari pensano che sei un po’ meno stronzo a pancia piena. Che dispiacere quando scopriranno che sei sempre il solito guasta feste!” Ridacchia e schiocca la lingua sul palato mentre esco.
L’infermiera a cui consegno il vassoio mi guarda riconoscente e con un po’ di compassione.
“Signorina Swan, come fa a sopportarlo tutti i giorni?” Scoppio a ridere e scuoto la testa. “Stamattina Claire è andata a svegliarlo per medicare le ferite sull’addome e si è inviperito, ha chiesto di lei e poi ha borbottato scontroso tutto il tempo. E’ ingestibile!”
“No, è solo ferito e sta male.” Lo difendo. Aspetta, lo difendo? Che diavolo mi è preso. Quell’uomo è proprio come lo descrivono. Incazzata con me stessa volto le spalle ai camici blu e torno in camera. Edward sta cercando di mettersi seduto, sorreggendosi con il braccio sano alla spondina, sul volto è disegnata una maschera di dolore.
“Che cazzo stai facendo?”
“Sono stufo di stare steso.”
“Se ti hanno messo in quella posizione c’è un motivo. Devi stare steso.”
“No, ho il culo piatto, un tutt’uno con la schiena, devo fare delle telefonate e lo yogurt acido mi sta tornando su.”
“Edward fermati!” Glielo ripeto più volte appoggiandogli le mani sulle spalle per tenerlo fermo, ma sono troppo stanca. “Per favore, stai buono!”
“Isabella lasciami!” Dice forte. Abbasso lo sguardo su di lui e noto sul camice una macchiolina di sangue. Merda.
“Edward, fermo! Fermo, cazzo! Stai sanguinando.” Si blocca e guarda dove gli indico con il dito. La macchia si allarga. Merda. Appoggio la mano sul campanello e chiamo alla disperazione, so che comunque ad un certo punto smette di suonare, ma mi sento più tranquilla sapendo di essere appesa a quel campanello.
“Merda.” La faccia di Edward è pallida, ha lo stesso colore del lenzuolo bianco che gli copre dal bacino in giù.
“Edward respira, guardami e respira.” Quando diavolo ci mettono le infermiere? Cullen alza gli occhi su di me, sono grandi, terrorizzati e dentro ci vedo più di quello che vuole mostrare. La paura non ha nulla a che vedere con il presente. Merda. Quante cose abbiamo in comune? Non so dove trovo la forza di staccarmi dal campanello, appoggio una mano sulla sua e la stringo forte, poi mi abbasso tanto da guardarlo negli occhi. “Non è nulla, è solo saltato un punto, stai calmo e respira. Respira con me. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Così, bravo.”
“Odio il sangue.” Mormora a bassa voce. “Ci sono cose che odio e basta, ma il sangue mi fa anche paura. Odio il sangue, ho paura del sangue. Dimmi che non c’è più sangue. Dimmelo.” Guardo giù verso il suo addome e scopro che il camice è macchiato più di prima. Altro che punto saltato, qui è partita tutta la striscia.
“Dimmi cosa posso fare.”
“Dimmi che non c’è più sangue.”
“Non posso dirtelo, perché odio mentire.”
“Anche tu odi qualcosa allora!” E’ ancora bianco come un foglio di carta e gli occhi sono ancora terrorizzati. Devo pensare a una strategia per non fargli pensare al sangue. L’infermiera entra in camera chiedendo cosa succede. Le mostro con la mano libera il busto di Edward e lei sgrana gli occhi, scappa dalla camera in cerca di qualcuno o qualcosa. Non so perché ma in questo momento mi preoccupa di più la tranquillità di Cullen.
“Ogni mattina che entravo nell’edificio dove ha sede la Cullenhale mi domandavo di che umore fossi. Pregavo perché avessi la giornata buona e fossi un po’ più calmo ad ogni riunione. Penso di averti visto calmo, davvero calmo, due giorni solo. Il primo che ricordo è stato grandioso, quella sera sono tornata a casa e ho festeggiato. Eri arrivato in ufficio un’ora in ritardo, non so per cosa, avevi chiesto a me e al numero dodici di farci trovare in sala riunioni, avevamo fatto un briefing interno per una campagna pubblicitaria piccolina. Quel giorno mi hai insegnato che anche le piccole cose hanno importanza nel nostro campo. I dettagli, un punto, una virgola, il colore di una tenda sullo sfondo e persino una piccola campagna pubblicitaria deve essere creata con la stessa attenzione e importanza di quelle da migliaia di dollari.” I suoi occhi tornano a guardarmi normalmente, il viso riprende colore e l’infermiera torna con un carrello e una specializzanda. Edward percepisce tutto ma continua a guardarmi, non sposta lo sguardo da me. La specializzanda alza il camice di Edward fino al petto e controlla la ferita.
“Bene signor Cullen, pare che siano saltati dei punti, devo ricucirla. Non si preoccupi però, le anestetizzo la parte interessata e in cinque minuti termino tutto.”
E’ un attimo, mi volto anche io e sgrano gli occhi. Il corpo di Edward è fantastico. Tonico, gli addominali scolpiti, la pelle semi abbronzata e liscia. Peccato per i lividi dell’incidente, la ferita che sanguina e per quelle cicatrici sul petto.
“Continua a parlarmi Swan!” Dice a denti stretti mentre la dottoressa prepara la siringa per l’anestesia locale. Sembra quella del dentista. “E l’altra giornata buona?” Mormora per farmi continuare il racconto e distrarlo. Sì, devo distrarmi anche io, dal sangue e dal corpo di Edward, per fortuna è coperto dal bacino in giù o avrei seri problemi ad affrontare il resto della giornata.
“L’altra giornata buona è la mia preferita. Stavamo lavorando sul caso Newton, Thomàs aveva lasciato a me le sue cartelline, tu quella mattina sembravi più calmo degli ultimi mesi.”
“E cosa è successo poi?”
“Ci siamo chiusi in sala riunioni per circa sei ore, pranzando con un sandwich, abbiamo analizzato il cliente da cima a fondo, abbiamo visionato video, siti web, ci siamo fatti portare delle foto delle vetrine. Abbiamo lavorato in sintonia e mai, neppure per un secondo, hai urlato con me, o sei stato scontroso o stronzo.”
“Non può essere stato sempre così brutto lavorare con me, Swan.” Dice a voce bassa.
“Solo alcune giornate non lo sono state, queste due le ricordo particolarmente.”
“La prima lo capisco, ma la seconda… cos’ha di così speciale?” Arrossisco e scuoto la testa ma lui non è d’accordo con me. “Dimmelo.”
“Assolutamente no.”
“Dimmelo Swan.”
“Ho detto di no!”
“Mi sto facendo ricucire sotto i tuoi occhi, l’anestesia non fa effetto, sento l’ago che entra e che esce dalla mia pelle e sono traumatizzato dal sangue. Devi dirmelo.”
La dottoressa si ferma e si volta verso di me. Merda. Edward ha il volto sconvolto.
“Okay. Okay te lo dico, ma sei un dannato despota e ricattatore.”
“Lo so.” Mormora appena. “Ora dimmi perché ti ricordi quella giornata.”
“Perché alla fine delle nostre ore passate insieme Irina ci ha portato un caffè a testa, mi hai battuto sulla spalla e hai detto “Ottimo lavoro Swan!” poi hai sorriso. Ho pensato che avessi uno splendido sorriso e che avrei voluto guardarlo ogni giorno. Ecco perché è così speciale quella giornata.” Edward sgrana gli occhi e io sento le guance in fiamme. Non parla per molti secondi, forse arriviamo a due minuti. La dottoressa, nel frattempo, ha terminato di ricucirlo e sta applicando una benda nuova.
“Ho zittito Edward Cullen. Mi merito un premio!” Mormoro per togliermi dall’imbarazzo. La mia mano è stretta nella sua, me la sta distruggendo, merda. Prima di andare a casa devo chiedere alle infermiere una pomata per i lividi e un antidolorifico forte per reggermi in piedi domani.
La dottoressa si raccomanda ancora una volta con Edward di non muoversi, di stare steso, di non agitarsi e di chiamare per qualsiasi necessità. L’infermiera mi fa uscire per cambiargli il camice e ne approfitto per prendere un caffè alle macchinette. Mi prendo più tempo del previsto, ho bisogno di riordinare le idee. Ho detto qualcosa di cui fra qualche ora, domani, dopodomani o fra qualche settimana potrei pentirmi. Ho teso la mano al nemico.
In realtà, a voler essere sinceri, è da un po’ che tendo la mano al nemico. Dovrei stare alla larga da Cullen invece finisco sempre per dargli una mano. Che destino bastardo. Almeno potrei evitare di confessare ciò che penso di bello di lui. Anche se il suo sorriso è davvero uno dei suoi punti di forza, se non conoscessi il suo carattere schifoso potrei innamorarmi di lui solo per i suoi occhi e per il suo sorriso. Ma questo lo tengo per me.
Torno in camera, Edward ha gli occhi chiusi e il respiro calmo e regolare. Bene, sta dormendo. Messaggio con Alice e Seth, quelli che al momento hanno meno lavoro dentro la Cullenhale, controllo le mail e facebook, poi ripongo il telefono nella tasca. Alzo gli occhi solo per assicurarmi che Cullen stia bene, ma mi sta fissando. Non sta dormendo.
“E così, ho un bel sorriso.”
E ti pareva che non sorvolava. Ego maschile alle stelle.
Alzo le spalle, non ho la benché minima intenzione di dargli retta, quindi riafferro il telefonino e apro il primo gioco a caso. Quiz, come se avessi davvero la pazienza e la concentrazione adatta a rispondere.
“Pensi che sia stronzo, arrogante, presuntuoso e despota, eppure hai notato il mio sorriso. Ti piace il mio sorriso.” Alzo gli occhi al cielo e nella sua voce scopro una certa tensione. “Hai altre cose positive da dirmi? Cos’altro apprezzi di me?” Sto per rispondergli di lasciar stare, che è meglio non continuare quella conversazione, ma mi salva il suo telefonino. Lo prendo dal comodino e glielo porgo. E’ Angela che ha delle domande e degli aggiornamenti per lui. Sta al telefono più di un’ora, tanto che mi decido a prendere il mio portatile per fare qualcosa di produttivo, tipo finire il libro che ho cominciato. Quando arriva il pranzo per Edward l’infermiera mi mostra un piatto in più, il mio pranzo.
“Non si doveva disturbare, ho comprato un muffin in più in caffetteria stamattina!” Le sorrido.
“Si figuri, quelli della mensa hanno sbagliato a consegnare i vassoi, ce ne sono due in più, li abbiamo divisi tra noi. Le fa bene mangiare un piatto caldo!” La ringrazio e comincio a scoprire il pranzo del malato.
“Non mangiare questa roba, tu puoi andare al ristorante e avere il meglio!” Borbotta a denti stretti. “No Angela, sto parlando con Isabella. Sì, la signorina Swan mi sta facendo da infermiera personale!” Sghignazza al telefono. “Oh non lo so, chiediglielo tu.” Sento i suoi occhi fissi su di me e le mani iniziano a tremare mentre apro le posate di plastica. Maledizione. “Ci sentiamo più tardi. Fai fare quelle telefonate a Irina, dividiti il lavoro con Emmett e chiama quelli delle fotografie per Newton. Dobbiamo rimandare l’incontro alla settimana prossima. Conto su di te.”
“Povera Angela.”
“Perché?” Si acciglia.
“Con questa ultima frase ora impazzirà, come se non avesse abbastanza carne al fuoco.”
“Che vuoi dire?” Minestrina e tocchetti di carne al vapore con tanto di verdurine lessate. L’odore non è per niente invitante e Edward guarda i suoi piatti come se fossero delle bombe pronte ad esplodere. “Non la mangio quella roba.” Scoppio a ridere della sua espressione inorridita.
“Gesù! Sei esilarante da convalescente! Dovevo fare un video e mostrarlo alla Cullenhale, nessuno ti avrebbe più temuto!”
“Non ti azzardare!” Alzo le mani con la forchetta e il coltello tra le dita.
“Mi vedi registrare per caso? Sto preparando il tuo pranzetto succulento!”
“Non fare la sarcastica. Dimmi cosa intendevi prima.”
“Angela ha sulle spalle il lavoro tuo e quello di Rosalie, lavora dalla mattina alle sei fino alle undici e mezzo di sera. Già normalmente fa gli straordinari, stamattina l’ho chiamata per sentire come stava e mi ha urlato addosso che non aveva tempo. Di sicuro con quel “conto su di te” non le hai messo nessuna soggezione!” Ridacchio.
“Faccio così paura?”
“Sì.” Rispondo piccata prima di scoppiare a ridere. “Perché nessuno di loro ti ha visto conciato così, a farti imboccare!”
“Simpatica. Odio la minestrina e odio le verdure bollite.”
“Odi altro di cui devo essere a conoscenza?” Alzo il sopracciglio verso di lui sarcastica.
“Odio che ti comporti così bene con me.” Arrossisco e abbasso gli occhi sul piatto di minestrina afferrando, con l’altra mano, il cucchiaio di plastica. “Perché lo fai?”
Ancora questa domanda. Finiranno mai di porgermela?
“Dovresti essere furiosa con me, dovresti starmi distante, detestarmi, odiarmi così tanto da volermi spaccare la testa. Eppure sei qui a prenderti cura di me perché non ho nessuno. Perché diavolo sei ancora qui?”
Continuo a fissare la minestra nel suo piatto, prendo la bustina di formaggio che hanno portato per me e la sciolgo nel brodo. Apro anche la bustina di olio d’oliva per le verdure e ne aggiungo qualche goccia, giusto per insaporire un po’ il tutto. Piccoli trucchetti che ho imparato nel tempo e che hanno permesso a molti bambini di apprezzare la minestrina. Lo ignoro e continuo a mescolare, sperando che anche il più insignificante granello di formaggio si sciolga. Abbasso la spondina del letto e mi siedo sulla porzione di materasso lasciata libera da Edward, ho bisogno di essergli vicino per poterlo imboccare adesso.
“Non mi stai rispondendo e lo odio.” Mormora fissandomi. Lo sento il suo sguardo che brucia la mia pelle. Lo so che odia le persone che non gli rispondono, ma io non sopporto queste domande e odio profondamente le persone che continuano a porgermi le stesse domande, all’infinito.
“Non mangerò finché non mi risponderai.” Lo guardo con un sopracciglio alzato, si crede davvero nella posizione di potermi ricattare?
“Mangerai perché se no vado a cercare un imbuto qualsiasi e ti faccio ingoiare ogni singola cosa che hai nei piatti a forza. E’ chiaro?”
“Non sono io il despota qua dentro, a quanto pare.”
Riesco a imboccargli qualche cucchiaio di minestra prima che riprenda a parlare. Non l’ho mai sentito chiacchierare tanto come oggi.
“E’ buona per essere una minestra di ospedale.”
“Ho imparato un trucchetto, un po’ di parmigiano, un goccino di olio d’oliva ed è mangiabile. Per lo meno. Quindi non fare storie, la finisci tutta, perché ti assicuro che non ho trucchi per farti piacere le verdure lessate!”  Ridacchia ed è un suono davvero bello. Dovrebbe ridere o sorridere più spesso, ma se glielo dicessi, probabilmente, verrei linciata e poi presa in giro. Devo trattenere i miei pensieri. Continuo a imboccarlo cercando di non pensare e non soffermarmi su quanto sia intimo tutto quello che sta accadendo in questa stanza. Di tanto in tanto si pulisce il mento con il tovagliolo che ha nella mano sana, apre la bocca e intravedo la lingua mentre porto il cucchiaio alle sue labbra. E’ eccitante. Se non fosse malato, se non fosse uno stronzo ed un bastardo potrei anche saltargli addosso.
“A cosa stai pensando?” Parla con la bocca piena e per fortuna non sputacchia. Scoppio a ridere scuotendo la testa.
“La mamma non ti ha insegnato che non si parla con la bocca piena?” La sua faccia diventa una smorfia di dolore e il ricordo dell’urlo di stanotte torna prepotente a farmi accapponare la pelle. Dio, quanto sono stupida! “Comunque pensavo che non ti ho mai sentito chiacchierare così tanto, non pensavo fossi così loquace, solitamente in ufficio abbaiavi ordini e dicevi sì e no due paroline. E’ strabiliante quante parole riesci a mettere insieme e quanti discorsi porti avanti quando sei costretto a stare in compagnia di una persona!” Cerco di cambiare discorso velocemente, sperando che si rilassi e che cambino rotta anche i suoi pensieri. Annuisce e continua a mangiare in silenzio. Io, che mi sento in imbarazzo per aver detto una cosa tanto stupida, cerco di riportare un po’ di serenità nella stanza. “Non ho detto che devi stare zitto, ora, possiamo per esempio parlare del tuo menù di stasera, se ti fanno scegliere. Cosa vorresti?” Non risponde. Maledizione! Appoggio il piatto vuoto sul vassoio e sbuffo guardando Edward. “Va bene, ti concedo una domanda.”
“Perché?” Borbotta.
“Perché sono stata una cretina e non so come farmi perdonare. Odio vedere i musi, odio vedere la gente arrabbiata, non lo sopporto. Quindi fammi una domanda a cui posso rispondere per farmi perdonare per la mia uscita infelice di poco fa.” Rassegnata prendo l’altro piatto e condisco le verdure e la carne con l’olio d’oliva, aggiungo il sale in bustina che gli hanno portato e mi preparo con la forchetta per imboccarlo.
“Rispondimi alla domanda di prima.” Come immaginavo. Ho anche avuto tempo di rifletterci, sono stata io a proporglielo, quindi ora devo per forza di cose dirgli qualcosa. E siccome tra noi c’è un tacito accordo di sincerità, nato stanotte, devo dirgli la verità.
“Sono ancora qui perché so cosa voglia dire stare in ospedale da sola, ci sono passata e ho odiato ogni singolo secondo delle mie giornate. E’ per questo che come crediti extra durante il college ho scelto di fare la volontaria in ospedale per qualche mese, oltre a essere stata costretta dalla psicologa ad affrontare questi luoghi. Poi mi sentivo utile, serena e i mesi sono diventati tanti, fino a far passare un anno. Ho smesso di fare la volontaria solo perché dovevo laurearmi.” Prendo un pezzo di carne e una carota e lo imbocco, mi godo le sue espressioni disgustate e cerco di non ridere. “Quando ho accompagnato Jasper in ospedale gli ho chiesto se la tua famiglia fosse stata avvisata, lui ha risposto di no, da ingenua e cretina quale sono ho insisto per sapere se voleva che lo facessi io, lui ha detto di no, che non era necessario e si è lasciato scappare che non hai nessuno.” Sospiro e prendo un profondo respiro. “Poi quando ci hanno dato notizie di Rosalie e di te ancora non ci dicevano nulla sono rimasta con lui, al suo fianco, lo vedevo distrutto e mi stavo seriamente preoccupando. Quando è arrivato il chirurgo ero nello stato emotivo peggiore, ansiosa, preoccupata, stanca… non ci ho pensato e per sapere qualcosa mi sono finta la tua fidanzata. Jasper ha preso da parte il dottore, gli ha detto che non saresti voluto restare in ospedale, che odiavi gli ospedali e che molto probabilmente avresti avuto degli incubi per cui dovevano tenerti sedato.”
“Che caro amico.” Mormora con astio finito di masticare. Lo ammonisco con lo sguardo.
“Siamo saliti in camera, si è seduto al tuo fianco, ti ha tenuto la mano, te l’ha stretta senza mai lasciarla e sussurrava che non eri solo, che c’era lui al tuo fianco, come sempre. E altre cose. Ho capito che la situazione era delicata e che dovevo starmene zitta e aiutare un amico. Fine della questione.”
“Per colpa di Jasper hai perso il lavoro. Non sei arrabbiata con lui? Non sei arrabbiata con me perché ti ho licenziata? Perché sei qui a farmi da balia quando potresti davvero startene al lavoro ad odiarmi e lanciarmi maledizioni?”
Parlando ha finito ogni briciola che aveva sul piatto e a me, stranamente, è passata la fame. Prendo lo stesso il mio piatto e lo scoperchio. Riso bianco. Tutte le volte che l’ho mangiato mi si intoppava nello stomaco e non riuscivo a finirlo. Dovrò accontentarmi, odio sprecare il cibo.
“Avevi detto una domanda e io ti ho proposto di rispondermi a quella che ti avevo fatto prima, non hai risposto a tutto. Rispondimi.”
“Non sono arrabbiata con Jasper, lui ha svolto il suo lavoro. Il poliziotto fa posti di blocco, si alza a orari improponibili, va a letto dopo giornate di lavoro infinite. E’ sempre sottoposto al rischio del mestiere e aiuta i cittadini a vivere sereni. Non ce l’ho con Jasper, lui ha solo svolto il suo lavoro. In più siamo diventati amici ed è molto difficile che io mi arrabbi con i miei amici.” Mormoro dopo aver ingoiato una forchettata di riso. E’ ancora più cattivo dell’ultima volta che l’ho provato.
“E con me? Con me non sei furiosa?” Tengo gli occhi sul mio piatto.
“Sono stata arrabbiata con te, ho anche sperato che ti venisse il mal di testa, un’influenza intestinale e qualche brufolo, ma non sono furiosa con te. Non lo sono stata. Mai.”
“Non capisco, perché?” Alzo le spalle e ignoro la domanda. Non ho intenzione di approfondire, direi di più di quello che sono disposta a mettere sul piatto. “Non ignorare la domanda, ho capito come fai. Non lo farai questa volta. Hai visto la gravità dei miei incubi, mi hai imboccato, mi sono umiliato di fronte ai tuoi occhi. Dimmi perché sei qui e non sei furiosa con me.”
La fame mi è passata completamente ma finisco le ultime due forchettate. Appoggio il piatto, prendo posto sulla sedia su cui sono stata tutta la notte, mi stringo il maglione addosso e accavallo le gambe. Il freddo è tornato ad essere parte delle mie giornate. Ci metto un po’ a trovare la forza di rispondere, ma lo faccio.
“Ci sono cose più gravi per cui essere furiosi nella vita, Edward. E l’ho imparato a mie spese. Posso essere furiosa perché i fantasmi del passato continuano a bussare alla porta quando vorrei che mi lasciassero in pace, posso essere furiosa perché un cretino vi ha fatto fare un incidente in cui avete entrambi rischiato la vita, posso essere furiosa perché ci sono pazzi che sparano a padri di famiglia, posso essere furiosa perché qualcuno non ha mantenuto con me la promessa della vita. Posso essere furiosa per tutte queste motivazioni, non perché mi hai licenziato in una giornata no e per colpa del mio ritardo. No, non sono furiosa, sono un po’ arrabbiata, ti considero uno stronzo ma non sono furiosa. E questo è anche il motivo per cui sono qui con te, invece di essere a casa a maledirti, Edward. Anche se sei uno stronzo bastardo presuntuoso e mi hai licenziata, rovinandomi la carriera, sei solo e sono furiosa per questo. Quindi non ho intenzione di andarmene, perché se mi cacci allora sarò furiosa con te e sarò furiosa con me stessa.” Prendo il telefono tra le mani e comincio ad ignorarlo. Lui, per fortuna, si chiude in un mutismo irreale, lasciando nella stanza un silenzio carico di significato e tensione.

giovedì 3 dicembre 2015

Capitolo Sei

** Note di Aly

Buongiorno a tutte! Stamattina non ho tantissime cose da dire, se non quelle banali di sempre.
Vi ringrazio tutte, dalla prima all'ultima: voi che leggete in silenzio, voi che aspettate con trepidazione l'aggiornamento, voi che recensite e mi lasciate il vostro pensiero. Siete meravigliose.
Oggi scopriamo molto di più, tanto di più.

In realtà questa volta non ho solo una frase preferita, ma un bel paragrafetto che ogni volta che mi capita di rileggerlo mi si stringe il cuore.
Il mio pezzo preferito del capitolo precedente è il seguente:
Dal capitolo 5 di Grido nel silenzio:

“E così eccomi di nuovo qui. Sono di nuovo al tuo fianco, di nuovo in un letto di ospedale. Tu non hai idea di quante volte io sia stato seduto al tuo fianco mentre dormivi profondamente controllato dai monitor. Non hai idea di quante volte volessi svegliarti scuotendoti e dirti che sei uno stupido, che… Dio!” Si passa una mano che trema sulle labbra e chiude gli occhi, stringendoli forte.
Non ho mai visto Jasper in una situazione del genere, non ho mai sentito Jasper parlare di Edward o parlare con lui, a parte quel breve intermezzo nella sala riunioni quando sono stata licenziata. Resto sconvolta a fissare la scena.
“Un piano più sopra c’è Rosalie, sai quanto voglio bene a mia sorella, eppure sono qui con te. Con te, maledizione. Mi farai morire di crepacuore un giorno, senza saperlo.”
Le parole sono dure ma calde, non è un uomo freddo, non sta parlando come se fosse un vecchio compagno di giochi perso per strada. C’è molto di più tra loro, come ho sempre immaginato.
“Starò qui, finché non ti svegli. Starò qui. Non sei solo, Edward. Non sei solo.” Gli occhi mi si inumidiscono e sento le lacrime premere e spingere per venire fuori. Ho visto molte scene da pianto in ospedale e fuori, ma questa mi tocca particolarmente. Jasper appoggia la mano su quella di Edward e la stringe appena mormorando ancora tenue “Non sei solo”.


Non ci sono molte spiegazioni su quello che ho riportato, tutte voi avete ben chiare le emozioni che scorrono lungo queste righe. L'ansia di Jasper, l'angoscia, la paura, il timore, l'affetto fraterno. E dall'altra parte c'è Bella, testimone di questo momento intimo e speciale, di un uomo che nonostante tutto è ancora lì a tenere la mano ad un amico, che decide di essere lì per lui, per non farlo sentire solo. Ci ho riflettuto a fondo e questo, purtroppo o per fortuna, è una cosa che mi caratterizza. Non importa quanto una persona a cui ho voluto un gran bene mi ferisce, quanto mi metta in un angolo, se poi sta male, se soffre, se è solo in un momento difficile io spesso metto da parte il mio orgoglio e mi siede accanto a lei... supportandola. Forse sbaglio, forse dovrei essere più dura, forse dovrei metterci una pietra sopra e basta, allontanandomi e evitando di rendermi così disponibile. Lo so. Eppure continuo a comportarmi così, continuo a essere ferita e a riprovarci infinite volte. Capita anche a voi?

Detto questo, vi lascio al capitolo, sicuramente più interessante delle mie riflessioni!
Buona giornata e, come sempre, buona lettura.
Aly **


 


“MAMMAAAAA!”


I timpani mi fanno male, ero così vicina alla sua bocca che il grido mi è entrato dentro stordendomi. Le braccia non hanno più forza per tenerlo fermo, le gambe non mi reggono, la testa vortica in una strana confusione e il cuore sanguina, ancora una volta. Resto ferma, nonostante tutto, per fermare il corpo di Edward dall’agitarsi. Non è più solo una promessa ad un amico.
“Si sposti signorina, dobbiamo svegliarlo!”
Scuoto la testa ferma nella mia posizione. Jasper ha detto che non va assolutamente svegliato quando ha gli incubi ed io ascolto lui. Lo conosce, ho sentito le sue parole, me l’ha fatto promettere e io non lo sveglio.
“Signorina, si sposti le ho detto.” Mi spinge con il suo corpo per farmi spostare ma io non lo faccio; le gambe mi tremano ma non mi muovo.
“Edward, mi senti? Non sei solo. Ci sono io, non sei solo. Calmati. Shhh. Calmati.” Dai suoi occhi sgorgano lacrime che non so come fermare, dalle sue labbra ancora suoni e grida che mi spengono le energie. Ho fatto una promessa, è vero, ma non è solo questo, vederlo così mi annienta.
“Signorina si sposti!” Mi giro verso l’infermiera incenerendola con lo sguardo. Lei tenta di fare il suo lavoro e io devo impedirglielo, con la rabbia che sento dentro non lo vedo per niente difficile.
“Non mi sposto. Non si può sedare una persona due volte in un giorno, lo so bene. Lei vuole svegliarlo e il suo migliore amico mi ha assolutamente vietato di farlo quando ha gli incubi. Sono incubi, non è dolore. Si deve calmare senza essere svegliato, ora se mi aiutate a tenerlo fermo forse eviteremo che si fratturi qualcos’altro.” L’infermiera sbuffa ma gli tiene ferme le gambe, mentre l’altra cerca di tenere fermo il braccio ingessato. Io resto incollata sul suo busto.
“Shh. Va tutto bene. Sei qui con me. Non sei solo. Non sei solo. Mi senti Edward? Non sei solo. Calmati. Respira e sentimi. Non sei solo.” Ho visto Jasper ripeterglielo molte volte, credo che sia la cosa giusta da fare. Me ne convinco solamente quando sento il suo corpo adagiarsi e la sua bocca mormorare cose sconclusionate a bassa voce. Le lacrime scorrono ancora libere sul suo corpo. Appoggio la mia mano sulla sua e quando sente il mio tocco intreccia le mie dita con le sue. Non posso muovermi ora, sono inchiodata qui. Mi faccio passare dei fazzolettini dalle infermiere, gli asciugo il viso coperto di lacrime e gli bagno la bocca con un po’ di acqua. Mi aiutano a sistemarlo sotto le coperte che sono scivolate per colpa dei suoi movimenti e quando finalmente Edward è a posto mi siedo anche io. Sfinita. Ecco come mi sento. Stanca e senza difese. Rivivo la scena di poco fa un milione di volte nella mia testa, e milioni di volte sento quel grido infinito, straziante.

“MAMMAAAAA!”

Un grido che mi porta indietro nel tempo, che mi condanna, senza appello, a rivivere ogni istante passato. E’ come se non fossi mai andata avanti, come se non fosse mai stato sepolto, dimenticato, chiuso in un cassetto in fondo all’armadio della mia mente.
A rallentatore, in bianco e nero, mi passa davanti agli occhi la scena di un film tristissimo.
Un uomo che esce di corsa dalla macchina, lasciando la sua bambina sul sedile passeggero raccomandandole di non muoversi, per nessun motivo. L’uomo che corre disperatamente verso l’edificio che sta bruciando, da cui si vedono fiamme altissime e fumo nero. Poi l’uomo non si vede più per un’infinità di tempo. La bambina piange, urla da dentro la macchina, ha capito che il padre è corso ad aiutare le persone che sono dentro la casa, ma ha paura. L’uomo ricompare, portando tra le braccia una bambina e aiutando una donna a camminare. La bambina ha gli occhi spaventati, il viso coperto di fuliggine e le lacrime continuano a scendere copiosamente sul volto. Ha paura. Trema. Ha freddo. L’uomo le fa sedere sul marciapiede, chiama i soccorsi, si inginocchia a parlare con le persone che ha appena salvato e non lo vede. Non vede l’uomo incappucciato che si avvicina con un arma in mano. Quando si alza si volta verso la sua bambina dentro la macchina e le sorride, cercando di comunicarle che va tutto bene, ma la bambina urla, grida dentro l’auto, perché lei l’uomo nero l’ha visto. E quando il padre si volta, l’uomo nero muove le labbra, ma la bambina non sente alcun rumore, l’abitacolo è intriso delle sue lacrime e colmo delle sue grida. Vorrebbe scendere dalla macchina, gridare al padre di fare attenzione, di scappare, di correre via insieme a lei, ma è chiusa dentro e urla, si dispera finché un colpo, un rumore sordo, non esplode nell’aria spezzando ogni suono attorno per un secondo. Un secondo infinito.
Un secondo lungo una vita.
Il grido della bambina è forte, acuto, disperato, angoscioso.

“PAPAAAAAAAAA’!”

Ma l’uomo è immobile sull’asfalto, l’uomo nero è corso via mentre le sirene suonavano all’impazzata correndo ad aiutarli. La bambina sbatteva le mani sul vetro, voleva uscire, correre dal suo papà, ma nessuno riusciva a sentirla in mezzo a tutto quel frastuono. Solo l’amico di suo papà, corso con la volante per liberare il traffico, si accorse di lei. La fece scendere dall’auto per accompagnarla a casa, le diceva che era sconvolta, che doveva calmarsi, ma lei non ci riusciva. Voleva solo correre dal suo papà. Guardò l’uomo che la teneva chiusa tra le sue braccia e con un ruggito come quello di un leone si liberò, attraversò la strada di corsa, si inginocchiò vicino al corpo del suo papà e cominciò a chiamarlo, a scuoterlo disperatamente.
“Papà! Papà! Papà rispondimi. Sono io. Sono io papà! Non ho paura ma rispondimi! Guardami papà. Sono qui. Sono qui papà!”
Ma l’uomo non fece in tempo a risponderle o lei non riuscì a sentire. I medici l’allontanarono, trasportarono l’uomo in ambulanza e lei rimase lì, con le mani intrise del sangue di suo padre e le lacrime congelate sul volto.

“Che ci… fai tu qui?” La scena si interrompe, finalmente, grazie alla voce roca e disturbata di Edward. Mi volto verso di lui e riesco a sorridere appena.
“Ciao, come ti senti?” Non è passato molto da quando ha avuto l’incubo, probabilmente deve essersi svegliato perché agitandosi si è fatto male.
“Cosa ci fai… qui?” Mi guardo attorno non sapendo cosa rispondere e prendo un attimo di tempo. “Sei sorda forse? Cosa ci fai qui? Perché mi stai tenendo la mano. PERCHE’ SEI QUI?” Alla fine urla e mi spavento. Ho sempre odiato le persone che gridano, il rumore assordante mi fa paura, ho cercato di vincere tutto ciò, ho cercato di andare avanti e ce l’avevo fatta. Fino a poco fa. Le immagini che ho ripercorso, l’urlo disperato di Edward, mi hanno abbattuto le difese costruite in anni e anni di training autogeno. Respiro a fondo e provo a muovere le dita tra le sue per accarezzarlo. Lui si accorge del contatto e le stacca immediatamente, come se avesse preso la scossa. Sospiro dispiaciuta di aver perso quella presa, forse non faceva bene solo a lui.
“Tu e Rosalie avete avuto un incidente e-”
“So cos’è successo. Non so perché tu sei qui!”
“Ero con Jasper ieri sera, l’ho accompagnato in ospedale e gli ho dato il cambio quando è andato a riposare. I dottori hanno chiesto di restare a farti assistenza, nel caso avessi bisogno di qualcosa.” Mi guarda sprezzante.
“Non ho bisogno di niente, non ho bisogno di nessuno. Non ho bisogno di te o di Jasper. Non ho bisogno di nessuno. Firmerò le carte per le dimissioni appena il dottore passerà per la visita di routine. Me ne torno a casa.”
Annuisco e mi alzo dalla sedia per sgranchirmi le gambe, stranamente intorpidite. Metto via il computer dentro la borsa e prendo il maglione, inizio ad avere un po’ di freddo.
“Vattene.”
“Certo, me ne vado. Quando il dottore ti dirà che puoi uscire e che non hai bisogno di nessuno!” Non mi faccio certo comandare da lui qui dentro.
“Non hai nessun diritto di stare qui! Vattene da sola o chiamo qualcuno.”
“Le infermiere intendi? Caro, loro sono contente di avere me qui, perché ti agiti e ti muovi e i punti delle ferite saltano e se i punti saltano loro devono riportarti in sala operatoria, pulirti e anestetizzarti, ancora una volta. Se invece ci sono io qui loro ti controllano meno, sanno che ti tengo fermo, possono andare da altri pazienti. Se chiami le infermiere otterrai solo un rimprovero.”
“Tu mi terresti fermo? E come vediamo?” Dandomi dimostrazione di essere in grado di muoversi si aggrappa con il braccio sano alla spondina del letto e cerca di tirarsi su. Corro da lui spingendolo con una mano sulle spalle, ricade come un foglio privo di vita sul letto.
“Cullen, sei stanco, ferito, imbottito di farmaci e stai male. Non metterti a fare la prova di forza con me.”
“E’ solo perché mi sono appena svegliato!”
“No! E’ perché ti sei svegliato dopo un incubo che ti ha privato di ogni energia!” Mi lascio scappare. Mi chiudo la bocca con entrambe le mani e chiudo gli occhi. Il danno è fatto.
“Vattene!”
“Edward-”
“Vattene! E di’ a Jasper di non tornare!”
“Perché ti comporti così?”
“Vattene!”
“Non me ne vado! Piantala di fare tutte queste storie, mettiti calmo e riprendi a dormire oppure pensa a qualcosa, l’importante è che la finisci con tutta ‘sta tiritera perché mi hai rotto le palle. Okay? Sarai pure stato il mio capo ma ora sei un semplice paziente su un letto d’ospedale che ha bisogno di compagnia e cure. Cerca di collaborare o ti faccio legare al letto con le cinghie pur di non muoverti!”
“Ma chi diavolo pensi-”
“Non sono nessuno, hai ragione. Ma io sono dalla parte della ragione e tu del torto. Sei qui e hai me e Jasper che ci prendiamo cura di te, cerca di essere un minimo riconoscente!”
“Non vi devo niente.”
“A me certamente no. Su Jasper avrei qualche dubbio. Ma cocciuto come sei non lo ammetterai mai, quindi pazienza. Ora su, mettiti a dormire.”
“Non sei-”
“Non sono nessuno, lo so.” Esco dalla camera per prendermi un tea caldo alle macchinette, incontro le infermiere e le aggiorno su Edward e il fatto che si è svegliato. Quando torno indietro si è calmato e steso comodamente sul letto. Non mi rivolge la parola così riprendo il computer e mi siedo sulla sedia a fianco del suo letto. Incomincio a leggere da dove mi sono fermata, dentro ho ancora un miscuglio di emozioni che mi tormentano ma devo sedarle e metterle a tacere. Avrò tempo di prendermi cura di me stessa quando sarò a casa, sotto le coperte con il mio cuscino tra le braccia e gli occhi chiusi. Non mi rendo neppure conto di aver chiuso gli occhi e respirato a fondo. Me lo fa notare Edward.
“Non ti senti bene?” Apro gli occhi di scatto e scuoto la testa.
“E’ tutto okay.” Mormoro tornando a ignorarlo. Pare che vada bene così, e non sono nessuno per contraddirlo. Ma dopo altri due paragrafi torna a parlarmi.
“Cosa ti ha raccontato Jasper?”
Alzo lo sguardo su di lui con il sopracciglio inarcato.
“Riguardo a cosa?”
“Me. Riguardo a me.” Pare arrabbiato, disperato, rassegnato.
“Veramente nulla.”
“Impossibile. Tu sei una donna, hai visto, osservato e fatto domande. Cosa ti ha detto Jasper?” Come al solito mi fa incazzare e siccome non è una grande serata devo contare fino a venti prima di rispondere.
“Non so con che razza di donne hai a che fare tu, ma non sono un’impicciona perché non mi piace che la gente ficchi il naso negli affari miei. Jasper non mi ha detto nulla.”
“Sai dei miei incubi però.” Mormora guardandomi fissa negli occhi. Non ha paura di ammettere le sue debolezze ora?
“Sì. Lo so perché poco fa ne hai avuto uno tremendo, ti sei agitato, ti sei messo a urlare. Ho dovuto calmarti. So dei tuoi incubi perché Jasper non voleva lasciarti da solo e mi sono proposta di aiutarlo, ma dovevo sapere con cosa avevo a che fare. So solo questo.” Annuisce e abbassa lo sguardo sui suoi piedi. Poi lo rialza su di me. No, non teme ciò che gli posso dire.
“Ho detto qualcosa durante l’incubo?” Potrei mentirgli, dirgli di no e far finta di niente. Sono capace a mentire. Poi però rivedo quella bambina, ormai cresciuta, seduta sulla scomoda sedia di uno studio privato, di fronte a lei una simpatica donna che le sorride.


“Lo sogno ancora dottoressa, lo sogno ogni notte. Mio fratello dice che ho smesso di urlare, ma conosco i suoi occhi, mente, finge, come mia madre. Tutti fingono con me, hanno paura di parlarmi, di dirmi la verità. Hanno paura per me. Ma io non ho paura. Finché lo vedo sarà sempre con me. Ho ragione dottoressa?”
“No Isabella, no. Se lo sogni va bene, ma gli incubi devono finire. Devi fare un patto con tuo fratello, deve dirti la verità.”
“L’ho fatto, ma lui mente. Mente sempre. E io lo odio così tanto.”


Sospiro e lo guardo negli occhi sbattendoli per cacciare l’immagine dalla testa.
“Sì, hai detto qualcosa. Hai urlato la parola mamma, il resto non l’ho capito.” Chiude gli occhi e sospira, poi scuote la testa e stringe le labbra.
“Merda!” Si lascia scappare.
“Non è un problema. La mia bocca è più cucita della tua, non lo dirò a nessuno.”
“Come no! E io ti credo. Sarebbe la vendetta perfetta, non credi? Ti vendichi del tuo ex capo che ti ha licenziata per un ritardo.”
“In realtà mi hai licenziata per la mia boccaccia, la mia inettitudine professionale, la mia testardaggine, indisponenza-”
“Okay piantala! Mi ricordo cosa ho detto.”
“D’accordo allora riprendimi a lavorare!” Mi guarda e scoppia a ridere. Ride davvero. E’ la prima volta che lo vedo ridere così e dovrei esserne felice ma subito il viso si traduce in una smorfia di dolore. “Fai piano e non ridere. Le ferite sull’addome e sul fianco sono ancora fresche. Ho fatto tanto per tenerti fermo prima, ora non rovinare tutto o ti mando il conto del mio fisioterapista!”
“E tu non farmi ridere!”
“E’ bello riuscire a farti ridere, oltre che a farti incazzare!”
“Sì, per quello hai una dote innata!” Mi sorride e non posso fare a meno di ricambiare. Poi torniamo seri e lui si schiarisce la voce. “Senti, per prima io-”.
“Non continuare. Non ne ho bisogno, davvero. Sono scuse inutili. Ti capisco perfettamente. Anche io odierei qualcuno che è costretto a farmi da balia, ma mi sono offerta, ed è inutile che mi guardi così, sono pazza! Mi sono offerta io per aiutare Jasper, davvero!”
“Come sta Rosalie?”
“E’ acciaccata, ha una gamba ingessata e una ferita alla testa, ma sta bene. Si riprenderà. Di certo non potete lavorare ora. Angela ha preso in mano tutto quanto. Se la sta cavando bene. Per lo meno il primo giorno è andato tutto secondo i piani.”
“Dovrò chiamarla per organizzare le cose, la prossima settimana devo tornare in ufficio per-”. Scoppio a ridere e scuoto la testa.
“Senti ma sai dove ti trovi? Sei in ospedale bello. Ti hanno ricucito in tre parti praticamente e tu pensi a tornare al lavoro! Sei completamente frastornato dai medicinali, non ti reggi in piedi, hai bisogno del sondino per fare pipì e vuoi lavorare. Ne hai per un mese e mezzo qui.”
“Devo tornare al lavoro!”
“Angela e Emmett se la caveranno. Non preoccuparti di questo e pensa ad altro!”
“Non ho altro a cui pensare, il lavoro è tutto per me.”
“Nessuna donna? Che ne so… magari una biondona tutta tette a cui piace strofinarsi su di te con quel suo miniabito attillato che appena si muove mette in mostra ogni briciolo di pelle che ha?” Mi guarda confuso e poi scuote la testa.
“Quando mi hai visto?”
“Oddio allora è vero!” Metto una mano davanti alla bocca spalancata.
“Quando?” Ringhia.
“Non ricordo bene. Un sabato sera comunque. E’ la tua donna?”
“E’ una che mi scopo.”
“Viva la finezza!”
“E’ quello che è per me. Non illudo nessuno.”
“Giusto!” Poi mi viene in mente una cosa e scoppio a ridere. Mi chiede cosa io abbia e quando mi calmo alzo il volto, gli sorrido ammiccante e poi gli faccio l’occhiolino. “Per il chirurgo che ti ha operato e per il medico che ti segue io sono la tua fidanzata!” Riprendo a ridere della sua faccia sconvolta e non riesco a fermarmi. “Non volevano parlare delle tue condizioni né con me né con Jasper. Lui ha dovuto usare il suo distintivo ed io ho inventato la prima scusa che mi è venuta in mente. Ho pensato che quando l’avresti saputo ti saresti incazzato così tanto da tirare giù il soffitto, ma vedo che la stai prendendo con filosofia!”
Mi brucia con un’occhiata delle sue e ridacchio appena, poi torno a dare attenzione al mio computer ignorando lui. Forse dovrei continuare a fare conversazione, oppure alzarmi e lasciarlo solo nella sua stanza per un po’, giusto finché non si riaddormenta, ma non saprei dove andare e non ho neanche tanta voglia di alzarmi. Tutti i suoi pugni iniziano a farsi sentire.
“Ascolta Isabella… Vorrei che quello che è successo qui dentro non uscisse fuori da questa stanza. Nessuno deve sapere… nessuno!” Alzo lo sguardo su di lui dopo aver sentito il mio nome, ma non mi guarda preferendo invece osservare un punto non ben definito sul muro dall’altra parte della stanza.
“Ti ho già detto che ho la bocca cucita. Non ti fidi?”
“Ho imparato a non fidarmi della gente tanto tempo fa. Non avercela, non sei tu è solo…”
“Lo so. Ti capisco.” Annuisce e poi chiude gli occhi, probabilmente per non dover parlare oltre. Torno al mio libro e leggo una frase sola prima di rialzare lo sguardo su di lui. E’ fermo ancora in quella posizione e mi chiedo cosa debba aver passato per essere in questa situazione. Non si fida di nessuno. Non ha nessuno al suo fianco. Non ha una donna, non ha amici, tratta tutti come se fossero delle pezze da piedi ed è più velenoso di una vipera. Eppure è un genio nel suo campo, professionalmente potrebbe essere uno dei migliori in circolazione, potrebbe scalare il successo anche senza l’aiuto di nessuno, ed è un uomo davvero attraente. Ma nessuno deve stare solo. Nessuno, l’ho imparato a mie spese.
“Dovresti parlare con Jasper.” Mi lascio scappare osservandolo mentre spalanca gli occhi verso di me. “Sì, dovresti prenderti del tempo per parlare con lui, per ricucire tutto quello che c’era un tempo, per sfogarti, per avere qualcuno al tuo fianco, un amico. Dovresti farlo.”
“Tu non sai nulla, non puoi dirmi cosa è meglio per me.”
“Tu credi io non sappia nulla, ma quello che so mi basta per capire che siamo della stessa pasta, con un passato in comune, con lo stesso carattere. Solo che io ho cambiato rotta prima di te. Devi parlare con Jasper, frequentarlo fuori dal lavoro e riprendere l’amicizia con lui. Secondo me diventeresti meno stronzo!”
“Non sai cosa dici. Jasper mi ha mollato nel bel mezzo del mio tormento anni fa. Non ho bisogno di lui.”
Lo scruto ancora un po’ e poi scuoto la testa, convinta di ciò che sto facendo, di quello che dico.
“No, tu non sai cosa stai facendo. Jasper non ti ha per niente lasciato in disparte. Si è allontanato perché non gli piaceva la persona che sei diventato ma… Beh non spetta me a dirtelo. Parlaci, dovresti davvero parlarci.”
“No, ora tu mi dici cosa sai!” Ringhia incazzato.
“So solo che è rimasto qui tutto il tempo a tenerti la mano, mentre sua sorella è nello stesso ospedale solo un piano più su. So che ha ripetuto all’infinito che non sei solo, che lui c’è e c’è sempre stato. E so che non è la prima volta che finisci in ospedale e che lui è con te.”
“Come lo sai?” La rabbia e lo stupore si alternano sul suo volto.
“L’ho capito. Il dottore ha detto che hai un qualcosa a livello di una vecchia cicatrice, devono approfondire le analisi, Jasper sembrava saperlo e non era per niente sorpreso. Poi siamo saliti qui, si è messo a piangere come una femminuccia e ti ha stretto la mano tutto il tempo. Ha detto che un giorno lo farai morire di crepacuore senza neanche saperlo e che è ancora una volta al tuo fianco mentre tu stai male. Quindi… ho dedotto che sia successo altro.”
“Una donna astuta!” Mormora sarcastico guardando altrove. “Ma questi sono fatti nostri.”
“Certo. Io ti consiglio solo di parlare con lui e ritrovare il vostro rapporto. Perderlo è stata una delle cazzate più grandi che potessi fare.”
“No, ne ho fatte ben altre. Questo mi ha permesso di salvare lui da una brutta strada.”
“Tu credi, ma penso che sia sempre stato al tuo fianco anche se non lo sapevi. Questi però, come mi hai fatto notare, non sono fatti miei. Ora cerca di dormire.”
Mi rimetto a leggere.
In realtà faccio fatica a concentrarmi, mi sono sempre vantata di riuscire a estraniarmi dal mondo quando avevo un libro tra le mani ma in questa stanza, qui con lui, mi sento a disagio e non riesco a liberarmi del peso sulle spalle che sento. Non sono a mio agio. Non riesco a capire il senso della frase fino in fondo e devo tornare a leggerla una seconda volta. Di questo passo per finire il libro ci metterò secoli. Non mi è mai capitato. In quel momento il telefono mi vibra nella tasca. Chi diavolo è a quest’ora?
Jasper. Guardo verso Edward e lo trovo a osservare un punto fuori dalla finestra, okay è sveglio, posso rispondere.
“Pronto?”
“Ciao, come va?”
“Non dovresti essere a dormire tu?”
“La centrale mi ha chiamato per un’emergenza venti minuti fa. Sono sul posto di un incidente. Volevo sapere come stava andando con Edward.”
“Bene.”
“Bella, non raccontarmi stronzate!” Lancio un’occhiata verso l’allettato e lo scopro a fissarmi.
“Okay, ha avuto un incubo più di un’ora fa, non mi avevi detto che il tuo amico era l’uomo roccia dei fantastici quattro. Eravamo in tre a tenerlo fermo, ma pare tutto a posto.”
“Ora dorme?”
“No, mi sta fissando con uno sguardo incazzato perché ti sto raccontando i fatti suoi. E mi diverto un mondo a farlo incazzare ora che non è più il mio capo!” Ridacchio e Jasper sembra più tranquillo, mentre Edward si imbroncia.
“Vorrei non dovertelo chiedere.”
“Jasper, per favore… siamo amici, sai che puoi chiedermi ciò che vuoi.”
“Puoi stare con lui fino alle cinque? Poi io farò la notte.”
“Jasper, devo lavorare!”
“Ti pago la giornata che perdi, per favore!” Sciolgo i capelli dal fermaglio e ci passo in mezzo le mani. In che diavolo di situazione sono andata a impegolarmi. Cazzo! E’ fuori discussione, Bruce mi licenzia.
“Non posso dare un preavviso di due ore a Bruce, quello mi licenzia!”
“Per favore Bella!”
“Senti Jasper, te lo dico con il cuore, il tuo amico qui poco sopporta la mia presenza e non credo affatto che con questa notizia farà i salti di gioia. Non posso perdere anche questo lavoro!”
“Non avevi fatto la volontaria in ospedale?”
“Jasper, non ricattarmi. E’ stato tempo fa, è stato perché la mia psicologa mi ha obbligata e perché mi servivano crediti extra. Non entravo in ospedale da secoli prima di quella volta. Non ricattarmi. Perderei il lavoro.”
“Chiamo io Bruce, non perderai il lavoro. Grazie Bella! Devo andare, salutami Edward.”
“Jasper! Jasper non ti azzardare a-” Stacco l’orecchio dal telefono e osservo lo schermo. Ha messo giù. Mi ha incastrata e ha messo giù. Che stronzo. “Lo uccido. Lo strozzo con le mie mani. Lo faccio diventare un polpettone con tutta la divisa. Sto stronzo!”
“Che succede?”
Mi ero dimenticata, per un attimo, di essere in camera con Edward. E’ un destino infame quello che manovra la mia vita.
“Jasper non ha riposato, è stato chiamato dalla centrale per un’emergenza, di conseguenza mi ha chiesto di restare qui con te fino alle cinque, di pomeriggio.” Lo guardo mentre sul suo volto si disegnano le rughe di ira. “E’ inutile che ti incazzi. Mi ricatta, lo stronzo. Chiamerà lui Bruce con una scusa, spero più che valida, anche se sono certa che perderò il lavoro. Lo strozzo.”
“Perché lo fai?” Di nuovo questa domanda. Ma non posso dirgli che mi dispiace che sia solo, non posso dirgli che so questa cosa, che ho capito che non ha più una famiglia, che non ha amici e che è solo. Non posso. Gli ho detto che non so nulla, ho mentito per non doverlo sentire urlare. Ora non posso proprio dirgli la verità.
“Perché ho fatto la volontaria in ospedale a ventidue anni e ho sempre avuto quest’aria da crocerossina. Jasper sa premere nei punti giusti.”
“No, c’è dell’altro. E tu non mi stai raccontando la verità.” Scrollo le spalle e torno a dare attenzione al mio libro. Questa volta riesco a concentrarmi di più e riesco a leggere una ventina di pagine. Quando alzo gli occhi per vedere se Edward dorme lo trovo con gli occhi aperti sul soffitto.
“Non hai sonno?” Gli domando a voce bassa.
“Non ho mai dormito molto, da ieri notte ho dormito più del solito. E’ strano per me.”
“Non dormi perché gli incubi ti disturbano?” Scuote la testa e vedendo che non mi risponde torno a leggere. La concentrazione è di nuovo sparita. Ho la schiena che mi fa male, vorrei stendere le gambe e sento dolore ai fianchi. Maledizione.
In ospedale dovrebbero sempre mettere una sedia a sdraio invece che queste sedie di ferro scomode, chi fa assistenza ad un parente si distrugge la schiena stando seduto qui per più di due ore. Un parente. Io sono qui per uno che mi ha licenziato e di cui conosco ben poco. Perché diavolo sono qui?
“Non dormo da quando avevo undici anni. Ho iniziato ad avere gli incubi a quell’età e la paura di soffrire per i miei sogni mi ha sempre impedito di dormire. Mi stanco, mi distruggo ma riesco a riposare solo un paio di ore per notte, prima di svegliarmi. Odio gli incubi. Odio sognare.”
Ha solo sussurrato il suo discorso, ma lo sento perfettamente e le sue parole mi colpiscono. Ha ragione Jasper, abbiamo più cose in comune di quanto pensiamo.
“Il primo incubo era così reale, così tangibile che hanno dovuto sedarmi per un giorno intero.” Dice ancora. Non so perché si stia aprendo con me, non so neanche perché non lo fermo. Io non voglio sapere queste cose, non voglio ascoltarlo mentre mi racconta della sua vita. Non posso. Riapre vecchie ferite, vecchi cassetti ormai pieni di polvere che fanno male, fanno così male che sento già le lacrime salirmi agli occhi.
“Ecco perché non dormo. Non mi piace dormire. Odio sognare, odio svegliarmi sudato e agitato e odio rivivere il passato.”
Ti capisco, vorrei dire, so cosa vuol dire, gli direi. Invece fisso lo schermo di fronte a me quasi in trance.
“Il primo incubo l’ho avuto quando avevo otto anni. Mi sono svegliata urlando, ho svegliato mia madre e mio fratello che sono corsi da me pieni di paura. Hanno cercato di rassicurarmi, di tenermi al caldo perché battevo i denti, ma non capivano. Non capivano che non avevo freddo, ero terrorizzata. Avevo solo otto anni e rivedevo quella scena… Non importa. Avevo solo otto anni. Ogni notte tenevo gli occhi aperti, la luce accesa sul comodino e facevo di tutto per restare sveglia, anche se la stanchezza era tanta. Poi quando non ce la facevo più dormivo. Ma gli incubi venivano a trovarmi dopo poche ore e dovevo ricominciare tutto daccapo.”
Lo sento respirare a fatica.
“Perché sei qui?” Mormora ancora e io non so cosa rispondergli. Abbiamo detto più di quanto era necessario, so che neppure lui sa niente di me, ma se continuiamo con questo ritmo stanotte ci racconteremo tutto. E io non posso. Ma non voglio neppure essere una bugiarda.
“Perché nessuno deve stare solo Edward. Jasper mi ha detto che non hai nessuno, so come ci si sente, so cosa voglia dire. Qui nessuno deve stare solo. Ecco perché sono qui.”
“Ti ho distrutto la carriera.”
“Sì, l’hai fatto. Ma questo non vuol dire che io non abbia sbagliato. Ho imparato tempo fa che ognuno deve prendersi le proprie responsabilità, io l’ho fatto. Non ti porto rancore, forse sono un po’ arrabbiata ma non cambia il fatto che tu sia solo e che deve esserci qualcuno qui con te. Soprattutto durante i tuoi incubi.”
“Non voglio più dormire.”
“L’ho detto tante volte anche io. Poi però ho trovato la pace e riesco a riposare bene ogni notte. Per questo devi farti degli amici, devi ricominciare a frequentare Jasper, a sfogarti, dormirai meglio e gli incubi spariranno per un po’. Sarà tutto più semplice.”
“Niente lo è.”
“Lo sarà. Chiuderai tutto in un armadio, lo coprirai con un telo bianco e lo lascerai lì dentro per giorni, settimane, mesi. Poi saprai che è lì, ma è nascosto. Non ti tortureranno gli incubi per settimane e per interi mesi. Sarà più facile, sarà più semplice.”
“Lo credi davvero?”
“Lo so.” Mormoro distratta.

Guardo ancora lo schermo davanti a me senza più parlare, nella mente solo l’immagine di una bambina seduta dentro una macchina mentre guarda l’ambulanza portare via suo padre. Le mani sono ancora sporche di sangue, le grida si espandono dentro l’auto, il pianto è così acuto e disperato che nessuno è in grado di fermarlo. L’amico di suo padre cerca di tenerla ferma ma lei vuole scappare, vuole correre dal suo papà.
La bambina è seduta su una sedia di ferro, i corridoi sono tutti bianchi, la gente passa velocemente, alcuni cercano di parlarle ma lei vuole solo la sua mamma. Il suo papà è dentro a qualche stanza, senza che lei possa vederlo, suo fratello è ancora a scuola, la sua mamma è al lavoro. Lei è ferma lì, immobile. Sente un grande freddo ma non vuole dire niente, vuole solo un abbraccio, vuole vedere suo papà correrle incontro e dirle quanto è bella, vuole sentire da sua mamma che andrà tutto bene, vuole intrecciare le dita di suo fratello con le sue.
La sua mamma arriva, gli occhi sono rossi, le guance sono piene di lacrime, stringe la mano di suo fratello mentre corrono lungo il corridoio bianco. La bambina non ce la fa ad alzarsi in piedi, le gambe sono così fredde. Un collega del suo papà si ferma a parlare con la mamma, il bambino corre incontro alla sorella, si siede al suo fianco e l’abbraccia forte. Le bacia la testa come faceva sempre il suo papà. La mamma si mette a piangere, singhiozza e grida nel silenzio di quel corridoio, la bambina chiude gli occhi forte, è così stanca di tutti quelle urla. L’amico del suo papà stringe la mamma e l’abbraccia, viene accompagnata alla sedia di fianco alla bambina, la prende in braccio e la stringe forte. L’abbraccio di suo fratello era più caldo, più consolatorio, più rassicurante. La mamma si sta aggrappando alla bambina per non cedere, ma non sa che la bambina non ha più forze, neanche per dire ciao. Poi il dottore esce da una porta a vetri opachi, la mamma la lascia seduta sulla sedia, corre dall’uomo con il camice verde, piange, piange tanto la sua mamma. Viene accompagnata in una stanza lontano da loro e torna solo dopo molto tempo. I due bambini si stringono la mano, il sangue sulle mani della bambina oramai è secco, ha bisogno di un bagno caldo ma non vuole allontanarsi dal suo papà.
“Ti voglio bene!” Dice piano suo fratello. “Sei stata forte. Sei stata brava. Fra poco andiamo a casa.” Ma quel poco che ha detto suo fratello si trasforma in un tempo indefinito. Quando l’amico di papà li accompagna a casa, la bambina si accorge che stanno andando dalla loro vicina. La mamma non è con loro. La mamma non torna a casa con loro. La bambina non ha fame, non mangia, ma la vicina di casa si prende cura di lei, le lava le mani, la faccia, le cambia i vestiti. E’ sempre stata una brava donna, una buona amica per la sua famiglia. Lei e suo fratello dormono vicini, nello stesso letto, ma la bambina non vuole chiudere gli occhi. Così suo fratello le canta una canzoncina, quella che suo papà le sussurrava ogni volta per farla addormentare. Si stringono forte, non si lasciano andare e quando la mattina aprono gli occhi sono ancora vicini, si sorreggono a vicenda, lui più grande di lei, lei più forte di lui.

Il cassetto dei ricordi è stato aperto, è stato forzato e la sua mente viaggia a velocità della luce. Vorrebbe che si fermassero le immagini, vorrebbe che si potesse cliccare sopra il tasto stop, ma è così difficile.
“Isabella, stai piangendo.”
Sì, lo so anche io, sto piangendo. Dopo tanto tempo le lacrime tornano sui miei occhi, lungo le mie guance. Piango, ancora una volta. Piango e non riesco a fermarmi. Mi asciugo le lacrime sulle guance con il maglione e cerco di respirare a fondo.
“E’ solo questo maledetto libro.” Sussurro non staccando gli occhi dallo schermo.
Ma lui lo sa, sospira un paio di volte per bloccare le domande che nascono nella sua gola. Lo sa che non è il libro, capisce che c’è ben altro. Lo sa perché abbiamo un passato in comune, qualcosa che è difficile da seppellire.